Il tema del carcere nella mostra fotografica di Michele Di Leonardo e Salvo Valenti “Ucciardone – ‘U Ciarduni”, visitabile al Centro internazionale di fotografia dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo
Il carcere dell’Ucciardone, l’istituto penitenziario storico di Palermo che deve tradizionalmente il suo nome al campo di cardi (chardon in francese) sul quale venne edificato nel XIX secolo,fu progettato sul Panopticon, il modello ideato nel 1787 da Jeremy Bentham e descritto da Michel Foucault nel suo celebre Sorvegliare e punire. Rispetto alle carceri di Ancien Régime, sovraffollate, insicure, in cui i prigionieri vivevano nella più pericolosa promiscuità, il nuovo sistema carcerario panottico avrebbe garantitoun controllo continuo del prigioniero, isolato in una delle celle disposte a raggiera attorno ad una torre centrale, all’interno della quale un solo custode è in grado di intravedere le nitide sagome e i movimenti dei detenuti. L’utopia di una società che vuole dotarsi di un vero e proprio dispositivo di sorveglianza adatto ad ogni situazione in cui si renda determinante il controllo completo e simultaneo di più individui, trova nel Panopticon un sistema sottile ed efficiente applicabile alle fabbriche come ai manicomi, oltre che alle carceri. La separazione individuale permette una precisa individuazione di ogni comportamento deviante ma la prigione diventa più che mai il luogo ideale per l’educazione e la riabilitazione del povero. Ed è questo lo spirito con cui lamonarchia borbonica, nel tentativo di creare uno stato accentrato e moderno e di normalizzare una società attraversata da continue rivolte popolari e tensioni sociali, progetta la costruzione del nuovo carcere che, nel 1840, anno in cui l’Ucciardone venne realizzato, pone Palermo all’avanguardia in Europa.
Ben presto la sua costruzione si rivelerà un’impresa impossibile, così come le finalità di controllo sociale che sognava di realizzare. Il carcere non verrà mai completato secondo i progetti originari dell’architetto Nicolò Puglia e, in seguito, di Emanuele Palazzotto che progettò anche la Real Casa dei Matti.
Situato in una zona paludosa e insalubre, soggetta a frane e crolli per la vicinanza del mare, l’Ucciardone rimarrà luogo di punizione, più che di riabilitazione e continua ancoraoggi, inglobato nella città, a mantenere un forte valore simbolico, spesso legato, nel bene e nel male, all’immaginario mafioso: dagli ospiti eccellenti che programmavano da lì omicidi e stragi, alle rivolte carcerarie e alle tragiche condizioni di sopravvivenza dei detenuti comuni. Ma anche al riscatto di un’aula bunker che ospitava gli imputati mafiosi del maxiprocessoe che ora ospita ogni anno i numerosi ragazzi che ricordano le stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio.
Una storia singolare quella del carcere palermitano che ha conosciuto vissuti e esperienze drammatiche ed all’insegna della discontinuità tra il “dentro” e il “fuori” (una frattura identificabile anche in termini architettonici e urbanistici) ma anche una timida apertura alla città, grazie anche all’inserimento di alcune aree dell’istituto nel circuito turistico-monumentale delle Vie dei Tesori degli edifici di interesse storico visitabili.
Tra le buone prassi di una narrazione più aderente alla realtà ed ai bisogni dei detenuti troviamo anche “Ucciardone – ‘U Ciarduni”, la mostra fotografica di Michele Di Leonardo e Salvo Valenti, visitabile al Centro internazionale di fotografia dei Cantieri Culturali alla Zisa sino al 12 Novembre. Non si tratta però in questo caso di un reportage di denuncia delle condizioni della vita detentiva, un tema in Italia attualissimo, ma di un progetto che persegue l’orientamento della fotografia sociologica.
Così il tema del carcere, “difficile”, nell’esperienza dei reportage fotografici, si misura con sensibilità diverse che trascendono la dimensione artistica o anche semplicemente fotogiornalistica. È il destino della fotografia sociale, aprire squarci su realtà poco documentate ed entrare in relazione con i vissuti, “difficili” da veicolare, dei soggetti che diventano immediatamente parte integrante della narrazione, con un’assunzione di responsabilità che prima di tutto è etica.
Michele Di Leonardo e Salvo Valenticon “Ucciardone – ‘U Ciarduni” aprono una finestra originale che si affaccia su un pezzo di storia urbanistica e sociale della città poco conosciuta e rappresentata. Nei ventinove scatti, selezionati dall’omonimo volume edito da Kalòs, gli autori rappresentano i gesti quotidiani dei detenuti raccolti in alcuni momenti salienti, con l’approccio tipico della fotografia sociologica. Il riposo, la partita a carte, la relazione con il cibo, la fede popolare e corale, gli oggetti della memoria familiare riposti su pseudo-comodini, l’attesa, lo sguardo protratto fuori, le sbarre che si trasformano negli archetipi della condizione esistenziale che il detenuto vive ogni giorno. La proposta degli autori non può essere annoverata nel genere della fotografia di cronaca o di denuncia. Le scene di vita ordinaria sono documentate con quel senso sufficiente di distanziamento che solo nel genere della fotografia sociologica si fissa nello sguardo attento e lucido, senza scadere nel sentimento empatico e rinunciando ai toni giudicanti.
Nella foto scelta per la locandina si gioca però in modo intuitivo, sul canonico insight gestaltico delle migliori lezioni di fotografia, l’asimmetria con i secondini, simbolizzata nel mazzo di chiavi (in primo piano nella locandina) attaccato alla cintura dei pantaloni. Nel codice numerico X55, inciso nella chiave più grande, si azzera ogni espressione di libertà civile e si stabilisce una distanza razionale tra il prima e il dopo in piena coerenza con il senso comune che vuole allontanare l’esperienza carceraria dalla possibilità che ci possa coinvolgere personalmente o attraverso un familiare/amico. La cesura che spacca in due la vita del detenuto si determina all’atto di ingresso nella struttura carceraria. Il carcere è altro, non deve riguardarci. Illuminante il testo teatrale contenuto nel saggio, a firma di Monica Capizzano (criminologa) nel quale l’autrice immagina un dialogo tra la guardia carceraria e un detenuto all’atto del suo inserimento. Due vissuti a confronto nel segno della dicotomia tra la personificazione burocratizzata nell’istituzione penitenziaria e nelle consegne dell’agente da una parte, dall’altra la consapevolezza nuova e dolorosa che vive il detenuto che si è interrotto un progetto di vita, frantumati i legami familiari che dovranno fare i conti ora con l’etichettamento sociale.
Il detenuto, costretto negli spazi angusti delle celle sovraffollate, vive in ordine allo spazio ed al tempo una condizione singolare di adattamento personale ed esistenziale che non ha eguali nelle altre esperienze di socialità. La detenzione è un trauma lento che occupa con la lunga, noiosa e ripetitiva sequela di divieti posti in atto, la mente e il corpo spersonalizzando e riducendo la sfera della soggettività. L’atteggiamento culturale della società verso il carcere è caratterizzato dall’avere delegato alle istituzioni sia i servizi, sia una ricerca di senso alla nuova condizione. In qualche misura si vuole dimenticare l’esistenza delle strutture di detenzione e, come scrive nel saggio da cui sono tratte le immagini della mostra Monica Capizzano, “non si può immaginare la drammaticità di questa realtà, di quanto la società rifiuti in maniera netta il reo, sia prima che dopo la scarcerazione, e di come il concetto di libertà venga reinterpretato da chi, di quella libertà, non ne sentirà più il profumo.”