Il 6 novembre si è conclusa a Berlino sotto un imprevisto caldo sole autunnale la seconda conferenza della rete “Donne tessendo il futuro” dal titolo “La nostra rivoluzione: liberare la vita” . Come la prima, svoltasi a Francoforte nel 2018, anche questa è stata convocata e organizzata dal movimento delle donne curde insieme a quell’imprevisto soggetto rivoluzionario trasnazionale che sono le donne che lottano contro il sistema di dominazione patriarcale in tutto il pianeta.
Un incontro per conoscersi, mettere in comune saperi e sofferenze, esperienze e un’inesauribile volontà di lotta. Alla prima conferenza di Francoforte siamo accorse rispondendo a un desiderio profondo dentro tutte noi; sentivamo che stavamo vivendo un momento storico di forte cambiamento e dovevamo farcene carico. Le compagne curde ci hanno donato una filosofia e un metodo, la Jineolojî, la scienza rivoluzionaria delle donne e della vita. In questi anni abbiamo sperimentato la sua efficacia per destrutturare e combattere il sistema patriarcale che ha colonizzato la mente e il cuore di quasi tutte le società.
Questo secondo appuntamento rappresenta una nuova fase, in cui è necessario cercare di agire e reagire contemporaneamente agli attacchi che il patriarcato muove contro le donne in tutto il mondo in maniera sempre più violenta, organizzandosi e agendo unite.
Il progetto che il movimento delle donne curde porta come proposta è il Confederalismo democratico mondiale delle donne. Un modello per sua natura flessibile e aperto alle diversità, ma che parte da principi chiari, tra cui il rifiuto dello Stato come forma di potere gerarchica, escludente e identitaria, figlia del patriarcato, attraverso cui si sostiene il capitalismo, sostituendolo con forme di autorganizzazione sociale e popolare la cui avanguardia sono le donne.
Perché un movimento di donne? Perché è arrivato il momento che questo soggetto imprevisto e oscurato dalla storia maschile metta in azione la sua forza, per un mondo senza guerre e senza nazioni, dove tutte e tutti si sentono connessi alla stessa Madre Terra nelle sue miriadi di forme vitali.
Il movimento delle donne curda nasce e cresce dentro il PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan costituitosi verso la fine degli anni Settanta sulla spinta di Reber Apo, Abdullah Ocalan e altri uomini e donne, tra cui la figura centrale di Sakine Cansiz.
E’ stato proprio il movimento delle donne a produrre una trasformazione all’interno del PKK, portando all’elaborazione del nuovo paradigma del confederalismo democratico, alla cui base vi è la convinzione profonda che un’alternativa al sistema patriarcale sia possibile partendo da una rivoluzione delle donne fondata sull’eliminazione del patriarcato, su un’ecologia politica e su un modello di democrazia radicale dal basso. Se le donne sono il motore, è necessario che tessano le proprie alleanze e reti, che si riconoscano e confederino per autodifendersi e costruire alternative a livello mondiale. La posta in gioco, come i tempi oscuri in cui siamo ci raccontano, è molto alta. Come ci ha rammentato una compagna da Aba Yala durante la conferenza: ricordiamoci di accendere i nostri fuochi e facciamoli ardere come simbolo di una libertà che è tale solo se tutte possono essere libere.
Ottocento donne arrivate da quarantuno geografie diverse del pianeta, di generazioni, società, tradizioni, lingue, colori, cosmogonie differenti, determinate tutte insieme a “rompere le frontiere” e realizzare un progetto grandioso e tremendamente ambizioso: unirsi nella lotta contro il patriarcato e il neoliberismo sotto il progetto “Jin Jiyan Azadi”, donna, vita, libertà. La potente magia della “poesia” lanciata del movimento delle donne curde.
Due giorni intensi, senza tregua perché la posto in gioco è ovunque la libertà delle donne, dunque la vita stessa. Tutte convinte che sia il momento di “illuminare l’oscurità creata dal sistema degli uomini” e di impegnarci per costruirne un’alternativa.
Di fronte all’attacco che ormai dilaga in ogni nazione governata dal pensiero maschile, anche se a volte sono delle donne a interpretarlo, “è arrivato il momento di avere una linea strategica e politica comune”. Con queste parole ha aperto le due giornate di impegno e di lotta Meghan Bodette, director of research del Kurdish Peace Institute, che ha continuato affermando: “In questi due giorni di incontri e riunioni formeremo questa volontà e promettiamo di realizzare questa utopia”.
Affermazioni esaltanti e insieme sconvolgenti, che a tutte noi però sono sembrate possibili e concrete. Follia o potenza dell’energia collettiva del femminile? Semplicemente la profonda convinzione che o questa rivoluzione delle donne ci sarà o non ci sarà più mondo e che le donne devono mettere mano al governo della casa comune prima della distruzione totale. Abbiano deciso di organizzarci come umanità senza confini, entusiaste delle nostre differenze che amiamo, che ci arricchiscono, che sollecitano la nostra curiosità e intelligenza. Non vogliamo essere assimilate, vogliamo brillare di mille colori e mettere in comune saperi, un patrimonio di lotte che dura da cinquemila anni e la nostra determinazione.
Il primo giorno è stato dedicato a riconoscere che femminicidi, stupri, carcerazioni, soppressioni di diritti sono in atto ovunque, non importa quale sia il potere, liberista o islamista o “socialista”, senza dimenticare le multinazionali. Di fronte a un pianeta messo a ferro e fuoco per decidere che dovrà governare il mondo tra gli Stati Uniti d’America e la Cina senza chiedere ai popoli cosa ne pensino a noi non resta che impegnarci per creare una alternativa alla guerra.
Il secondo giorno è stata dedicato a come fare a opporci ai multiformi attacchi del patriarcato, a come costruire una organizzazione femminile sovranazionale e il confederalismo democratico di tutte le donne del mondo.
Un progetto così ambizioso che quasi mi stordisce. E’ il delirio dì onnipotenza della madre? Mi guardo attorno e vedo un mondo diviso, la solitudine della metropoli, sento la mia debolezza, individua senza potere nel mondo delle merci, penso ai quattrocento conflitti in atto oggi nel mondo, ai 340 manifestanti uccisi in Iran, alla richiesta dei parlamentari di quel paese di comminare la pena capitale ai manifestanti arrestati, alle prigioniere politiche incarcerate dal Nicaragua all’Afghanistan e il coraggio vacilla di fronte al compito immane che ci attende.
Poi torno a quella pluralità di voci, di capelli sciolti, di abiti multicolori. Le curde indossavano i vestiti più belli e sorridevano senza paura, anche se in Rojava la Turchia lancia droni chimici, le fiere sarawi avvolte nei loro teli colorati rivendicavano i loro 40 anni di lotta, la Mapuche regale nella sua autorità ancestrale diceva: ”Ci hanno tolto la paura quando siamo nate”, le giovani europee con gli occhi che brillavano di determinazione e tenerezza e quelle che avevano vent’anni nei lontanissimi anni Settanta, ognuna che arrivava da qualche banda più o meno armata allora in conflitto. Ci sorridevamo contente di scoprirci ancora vive e forti. E poi le cilene orgogliose delle loro lotte contro il nuovo fascismo, la bellissima afroamericana con un’energia da sgretolare il mondo che gridava ” I promise you, we win”, le gautemalteche che rivendicavano il loro mondo ancestrale e le loro terre occupate dagli invasori e il diritti dei popoli nomadi a non avere confini, l’indiana che non ha paura di Modi e che rivendica per tutte di liberare il tempo per la lotta.
E la potenza di quell’appello collettivo e sovranazionale letto da Havin Guneser, ingegnera e responsabile dell’Iniziativa Internazionale per la Liberazione di Ocalan – Peace in Kurdistan: “Stiamo attraversando tempi difficili, ma siamo anche alla nascita di un nuovo sistema. Combattiamo contro il sessismo, il razzismo, l’estrattivismo e il colonialismo: ecco perché hanno paura di noi. Devono avere paura perché siamo collegate e saremo sempre di più ad opporci al sistema patriarcale. Ci devono più di una vita, ci devono la vita delle nostre madri, delle nostre sorelle. Noi siamo la loro resistenza. Siamo furiose, decise a cambiare il mondo e chiediamo a tutte le donne di unirsi a noi per la nostra comune lotta. Jin Jiyan Azadi lo sta gridando tutto il mondo.
Rosella Simone di Fonti di Pace