Nell’articolo sul significato dei tessuti tradizionali dicevo che la Terra di Kama (l’Africa) ha ancora tanti segreti e misteri su questo tema; scoprirli può aiutare a far luce sul presente e il futuro dell’industria tessile africana.
La moda tradizionale vietata
La schiavitù e il colonialismo cercarono di cancellare l’identità africana, trasformando il continente in un luogo di sfruttamento e consumo di tutto quello che arrivava dalle città. I tessuti non sfuggirono a questa regola. In Camerun per esempio i coloni tedeschi vietarono un gioco simile agli scacchi di nome abbia e quasi dovunque c’era l’ordine di indossare vestiti “civili”, ossia occidentali. La moda tradizionale ne soffrì, soprattutto nelle capitali, ma riuscì a resistere nelle zone rurali e nei villaggi. La religione e la politica ebbero a loro volta un ruolo fondamentale e molte opere d’arte vennero portate nei musei in Europa e negli Stati Uniti, o furono bruciate dalla nuova élite africana.
Gli abiti viaggiano
Gli africani deportati come schiavi portarono con sé non solo la loro musica, ma anche la loro moda, sfidando i divieti e indossando di nascosto gli abiti tradizionali in cerimonie religiose come il vudù e altri culti africani e anche durante varie rivolte. I colori avevano un loro significato. Ad esempio quelli tipici della cultura Rasta e di molte bandiere africane sono il giallo, come la ricchezza dell’oro, il rosso, come il sangue sparso, il verde, come la terra e il nero, come il colore della pelle.
La moda tradizionale ritorna
Dopo l’indipendenza alcuni capi di Stato tenevano spesso i loro discorsi indossando vestiti tradizionali. E’ il caso del maliano Modibo Keita, del kenyano Jomo Kenyatta e del Negus etiope Hailé Seliassié. La tendenza però era ancora timida e infatti quasi tutti i leader ritratti in occasione della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana ad Addis Abeba nel 1963 indossavano abiti di stile occidentale.
Bisognerà aspettare gli anni Settanta, quando nello Zaire di Mobutu venne imposto un abito detto Abacost (dal francese “à bas le costume”), ispirato allo stile comunista di Mao, ma fatto con tessuti africani. Per gli uomini si aggiungeva un copricapo in pelle di leopardo, simbolo dei capi dell’Africa centrale e per le donne una tenuta con disegni tradizionali, trecce o un turbante. Il fatto che molti capi di Stato cominciassero a vestirsi così spinse i popoli a imitarli. C’era però un paradosso: il cosiddetto wax olandese, un tessuto colorato di produzione industriale, era un’imitazione del batik e non un prodotto africano.
Wax olandese e Panafricanismo
Il wax conobbe una grande diffusione, tanto che gli africani lo accettavano come se fosse un tessuto loro. Il Panafricanismo, un movimento mondiale che mira a incoraggiare e rafforzare i legami di solidarietà tra tutti i gruppi etnici indigeni e della diaspora africana, spinse però molti giovani a tornare alle radici e a scegliere materiali tradizionali. Grazie ai maggiori legami tra Paesi, oggi assistiamo a matrimoni celebrati in Africa centrale con vestiti nigeriani e a giovani dell’Africa australe che si sposano indossando un abito femminile chiamato imvutano e uno maschile chiamato imbega, originari del Burundi e del Ruanda.
Nuove tendenze
Oggi assistiamo a un grande fermento nell’ambito della musica, del cinema afro-americano e della moda; molti giovani vogliono vestirsi basandosi sul passato, ma con forme futuristiche e si tengono molte fiere della moda africana. Si vedono così giacche, gonne e pantaloni fatti con tessuti tradizionali e capi di arredamento che si richiamano allo stile dei palazzi dei sovrani africani.Tra le icone di questo nuovo movimento afro-futurista troviamo la cantante e stilista Queen Tava, che con il suo marchio Liputa Swagga guida la rivoluzione nella moda in Congo e la togolese Nadia Karimu con i suoi cappelli “Apétô / Apénô”, ispirati ai copricapi dei capitribù.
E infine, grazie allo storico, scrittore e documentarista Nysymb Lascony, possiamo riscoprire il grandioso passato dell’Africa. Difensore della causa nera, Lascony intende mostrare l’altra faccia del continente, quella che ride, vince e innova e non tende la mano per ricevere l’elemosina.