Tra il 2016 e il 2017 la nave di salvataggio Iuventa ha fatto parte della flotta civile. Si è trattato di un intervento politico concreto in risposta alla politica migratoria dell’UE che ha lasciato annegare in mare decine di migliaia di persone. La reazione dello Stato italiano per il contributo della Iuventa nel salvare oltre 14.000 persone dall’annegamento nel Mediterraneo centrale è stata quella di avviare un’indagine approfondita, includendo agenti sotto copertura, intercettazioni telefoniche, sorveglianza delle navi, delle abitazioni e addirittura di giornalisti, avvocati e religiosi.
Le indagini sono diventate note a livello internazionale nell’agosto 2017, quando hanno portato al sequestro della Iuventa, e si sono nuovamente intensificate nel 2021, quando sono state formulate le accuse per “favoreggiamento dell’ingresso non autorizzato in Italia” nei confronti di 21 persone dell’equipaggio di tre navi di soccorso (Iuventa, Save The Children, Medici Senza Frontiere) e di una compagnia di navigazione (VROON). L’accusa sostiene che questi salvataggi non sono stati effettuati né in risposta ad un’emergenza in mare, né per salvare le persone da sofferenze e morte certa. L’accusa sostiene di avere delle prove che dimostrano la collaborazione con gli scafisti e i trasbordi diretti, ritenendo che l’unico intento fosse quello di facilitare l’ingresso delle persone in Italia.
Foto di Janna Heiß. Iniziativa di solidarietà il primo giorno di processo
Prima parte. Il coraggio mancato
Il 21 maggio 2022 abbiamo finalmente affrontato i nostri accusatori in un’udienza preliminare presso il Tribunale di Trapani, dove abbiamo constatato che il giudice non ha avuto il coraggio civico necessario per fermare il procedimento. A cinque anni dal sequestro dell’imbarcazione, non si è voluto affrontare il nocciolo della questione, ovvero l’urgente conclusione che il soccorso in mare non può essere un reato perché la fuga e la migrazione non sono un reato. Non è stata detta una parola sul tanto atteso e impellente rilascio dei mezzi di salvataggio confiscati e nemmeno sulla riabilitazione degli imputati e della loro causa. Si è trattato esclusivamente di sanare il lavoro approssimativo delle autorità inquirenti e della Procura per poter finalmente iniziare il processo. La stessa Procura che era riuscita a coordinare cinque diverse agenzie di polizia, tra cui unità antimafia e servizi di intelligence, per mettere fuori uso una nave di salvataggio estremamente necessaria, non è stata capace di giustificare il motivo per cui lo aveva fatto. Non sono stati in grado – o semplicemente non si sono preoccupati – di informare tutti noi imputati delle accuse nei nostri confronti, che non solo ci trascineranno per diversi anni in un assurdo caso giudiziario, ma potrebbero concludersi con una condanna fino a 20 anni di carcere. Tuttavia, negli ultimi mesi abbiamo ottenuto piccoli “successi”.
Verifica di tutte le possibilità legali: un gruppo di osservatori internazionali, a cui inizialmente era stato negato l’accesso al processo, è ora autorizzato a monitorare le prossime udienze. Riteniamo che si tratti di un’importante agenzia della società civile, che osserverà e riferirà sul caso, non solo rendendo visibile un processo socialmente rilevante ma ponendo così le basi per valutazioni, accertamenti e interventi.
Ondata di solidarietà: nonostante la repressione dello Stato, ci sono stati anche momenti incredibilmente edificanti nello spazio pubblico: noi accusati non eravamo soli! Il giorno della prima udienza si sono mobilitati numerosi gruppi di supporto da tutta Europa, non solo con una manifestazione davanti al tribunale, ma anche con azioni e dimostrazioni in molte città europee. In questa occasione ci sono state persone che hanno raccontato delle loro lotte facendo riferimento al caso della Iuventa e alle sue vicende, dimostrando così che la lotta per la solidarietà in mare non è isolata, ma che ha invece le sue radici in molte e diverse realtà di resistenza!
Seconda parte. Non hanno fretta, non gliene può importare di meno
Il 29 ottobre 2022 ci troviamo a Trapani e ancora una volta l’udienza è stata rinviata… e non a causa di eventi imprevisti o di nuove prove, né tantomeno per un cambio nella politica di criminalizzazione della solidarietà – no, ancora una volta un imputato non è stato correttamente invitato a un incontro rilevante per il procedimento, ancora una volta la sciatteria e l’ignoranza della Procura hanno portato a un ritardo del processo. Questo dimostra quanto sia facile tenere in vita un processo, mantenendo così un effetto intimidatorio nei confronti della flotta civile, anche se non si riesce a ottenere una condanna.
Foto di Selene Magnolia – La nave Iuventa ancora sotto sequestro nel porto di Trapani
Tuttavia, mentre dobbiamo fare i conti con l’accuratezza dei timbri postali, dei nomi e degli indirizzi, almeno possiamo muoverci liberamente, organizzarci e lottare. Innumerevoli persone in movimento, invece, sono costrette ad aspettare nelle carceri lo svolgimento dei loro processi. Secondo il recente rapporto “Dal mare al carcere” di ARCI Porco Rosso, Alarm Phone e Borderline-Europe, dal 2013 la polizia italiana ha arrestato più di 2.500 persone con l’accusa di “favoreggiamento dell’ingresso non autorizzato“.
Il rapporto “Incarcerating the Marginalised” (Incarcerare gli emarginati ndr.) di Aegean Migrant Solidarity, Deportation Monitoring Aegean e Borderline-Europe, mostra come in Grecia le persone in movimento accusate di “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare“, stimate attorno alle 1.900 persone nel 2019, trascorrano mesi in detenzione preventiva. E quando alla fine il loro caso va a processo, la condanna è determinata attraverso procedimenti molto brevi (la durata media è di 38 minuti). La maggior parte degli imputati viene condannata all’ergastolo (la pena media è di 48 anni).
Loro che sono dovuti fuggire o migrare da soli, loro che sono sopravvissuti alla traversata, spesso mortale, e che questa volta hanno avuto la fortuna di passare attraverso la macchina del respingimento per procura. Sono loro le vere persone dietro le “cifre di successo” della lotta delle autorità contro i trafficanti. Le accuse sono altrettanto fasulle, le udienze altrettanto assurde. Ma devono aspettare dietro le sbarre un verdetto di colpevolezza che in realtà è stato emesso già molto prima del loro arresto. Devono servire da capro espiatorio per il mortale regime di frontiera dell’Unione Europea, mentre l’unico responsabile è invece l’UE stessa, non disposta a offrire percorsi legali e sicuri. Essi scompaiono dietro le statistiche ufficiali… proprio come coloro che perdono la vita nella fossa comune del Mediterraneo.
Terza parte. #NoTranslationNoJustice!
Oggi stiamo vivendo un’altra sfaccettatura di una giustizia classista, che colpisce in primo luogo i più emarginati, ma che è un attacco contro tutti noi: il diniego di una traduzione adeguata e di un’interpretazione sostanziale è un ostacolo che ogni persona di lingua straniera è costretta ad affrontare, in quanto il diritto a una partecipazione effettiva ai procedimenti contro di loro è sistematicamente negato dalle autorità – dal primo contatto con la polizia fino ai pubblici ministeri e ai giudici. Queste condizioni ingiuste colpiscono essenzialmente tutti gli imputati di lingua straniera, come noi della Iuventa, ma più duramente coloro che non dispongono di un sufficiente capitale socio-economico o di ampie reti sociali o di solidarietà che li proteggano …. come nel caso di chi è appena arrivato alle frontiere europee su un barcone sovraffollato o è rinchiuso in lager dove non c’è quasi più spazio che per la sopravvivenza quotidiana.
L’elevato numero di condanne e detenzioni per “ingresso o soggiorno non autorizzato” e “favoreggiamento” si basa su testimonianze, documenti firmati e udienze in cui viene sistematicamente negato il diritto fondamentale a una traduzione e a un’interpretazione adeguate, come previsto dalla direttiva europea 2010/64/UE. Questo deve essere quindi inteso come un’altra sfaccettatura della guerra dell’UE contro le persone in movimento e un altro muro della Fortezza Europa contro il quale le persone sono destinate a scontrarsi.
Ecco perché dobbiamo e vogliamo continuare. Ancora più forte, ancora più risoluto. Dobbiamo dimostrare che la nostra solidarietà e resistenza non si lascerà intimidire.
Sascha Girke e Dariush Beigui, autori di questo articolo, sono stati capitano e capo missione della nave di salvataggio Iuventa.