Esiste nel nostro Paese una condizione di disparità tra uomini e donne nella sfera lavorativa ed economica. A certificarlo ancora una volta è la recente indagine “Lavorare dis/pari, ricerca su disparità salariale e di genere”, realizzata dall’Area Lavoro delle ACLI Nazionali, in collaborazione con il Coordinamento Donne ACLI. La ricerca ha beneficiato della possibilità di accedere alle banche dati del Caf Acli e del Patronato Acli, che ogni anno incontrano centinaia di migliaia di persone, garantendo loro servizi fondamentali.
Dai dati raccolti emerge che il cosiddetto lavoro povero è prerogativa femminile: tra i lavoratori/trici saltuari/e coloro che hanno un reddito annuo complessivo fino a 15.000 euro sono il 68,1% tra le donne, percentuale che scende al 51,5% tra gli uomini. Ma anche tra i/le lavoratori/trici stabili i valori registrati per quella fascia di reddito sono rispettivamente del 24,6% contro il 7,8%. Appare interessante notare come il divario sia indifferente alla condizione lavorativa e alla continuità lavorativa: il divario con gli uomini si conserva sia che si disponga di un lavoro retribuito, sia nel caso opposto. La concentrazione delle donne giovani nei livelli bassi di reddito è particolarmente evidente tra le lavoratrici discontinue: tre su quattro dichiarano redditi complessivi bassi (fino a 15.000 euro annui), 8,4 punti percentuali in più rispetto ai pur svantaggiati coetanei maschi. Un ulteriore rilievo riguarda l’appartenenza geografica dei/lle dichiaranti: distinguendo le diverse aree del Paese, infatti, si osserva come il divario di genere nei redditi annui sia più marcato al Centro-Nord e tenda, invece, a ridursi nel Mezzogiorno.
Durante la pandemia, le donne hanno patito gli effetti più duri della crisi. Nel 2021, presso il Patronato Acli, per esempio, le pratiche aperte per il reddito di cittadinanza sono state per il 57,5% femminili, 54% quelle per il reddito di emergenza. Un ulteriore indicatore di fragilità delle donne nel mercato del lavoro è rappresentato dalle pratiche per la Naspi, che sono state per il 61,3% femminili nel 2021. Da notare che il 67,8% dell’indennità mensile di disoccupazione proviene da donne lavoratrici, il cui rapporto di lavoro si è, quindi, interrotto senza la propria volontà. Anche per la presentazione delle domande di Naspi il divario di genere è più sensibile nel Centro-Nord del Paese, mentre al Sud la perdita del lavoro che ha dato luogo alla richiesta sembra un evento più distribuito tra i generi.
Per completare il quadro, è stato realizzato anche un sondaggio online a mezzo questionario sottoposto a uomini e donne adulti con lavoro retribuito o ritirati/e dal lavoro e raggiunti tramite i canali del Coordinamento Donne e dell’Area Lavoro delle Acli. L’indagine, realizzata nella primavera-estate del 2022, è stata condotta mediante questionario e ha coinvolto 1.060 persone. Il sondaggio mostra che il divario di genere rispetto ai redditi da lavoro sussiste anche tra lavoratori/trici con caratteristiche simili, presentandosi più alto per i lavoratori e le lavoratrici stabili nel settore privato (dove i redditi delle donne risultano particolarmente bassi) rispetto al settore pubblico (circa 26 punti percentuali), dove i redditi bassi si riducono e le differenze di genere anche. Il massimo divario si registra tra i lavoratori e le lavoratrici non standard, con un divario che supera i 30 punti percentuali. A livelli più elevati di istruzione corrispondono poi livelli di reddito da lavoro superiori per entrambi i generi, sebbene con le dovute differenze: se, infatti, il 39% degli uomini laureati dispone di redditi superiori ai 2000 euro, ciò accade solo per il 17,7% delle donne laureate.
L’indagine ha anche evidenziato delle “zone grigie” del lavoro femminile. Ad esempio, è risultata consistente tra le donne la percentuale di lavoratrici che ha dichiarato di avere contratti per non più di 30 ore settimanali, oppure di lavorare full time (18,4% contro appena 4,7% tra gli uomini). Questa apparente contraddizione potrebbe celare un orario di lavoro prolungato in cui viene contrattualizzata sono una parte delle ore lavorate. Dall’indagine emerge, in conclusione, come il lavoro povero o fortemente vulnerabile sia ormai quotidiana normalità per molte donne soprattutto giovani e ancor più se immigrate. Si tratta di un regresso sociale, un ritorno cioè a quando l’occupazione delle donne era il lavoro di serie b della famiglia.
Qui l’indagine completa: