Il discorso di Giorgia Meloni al Parlamento, per chiedere la fiducia al Governo che presiede, contiene molti spunti interessanti.
Anzitutto il concetto di libertà. Il discorso della Presidente del Consiglio dei Ministri si chiude con una citazione di papa Giovanni Paolo II: «La libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve». Ma questa idea della libertà è contraddetta in diversi passaggi precedenti. Per esempio, quando ha detto: «Il motto di questo Governo sarà: “non disturbare chi vuole fare”». Un altro esempio: «La libertà è il fondamento di una vera società delle opportunità, è la libertà che deve guidare il nostro agire, libertà di essere, di fare, di produrre. Un Governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese». Insomma: la libertà è ciò che si deve o ciò che si vuole fare? Un po’ di coerenza su questo principio fondamentale non guasterebbe.
Poi c’è la democrazia. Meloni sostiene che il voto è «la piena realizzazione del percorso democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità», tralasciando che la sovranità è limitata dalla Costituzione, che garantisce la divisione dei poteri e il rispetto dei diritti. Questa dimenticanza si nota nella successiva affermazione, laddove descrive quanto è accaduto negli ultimi 11 anni «con un susseguirsi di maggioranze di Governo pienamente legittime sul piano costituzionale, ma drammaticamente distanti dalle indicazioni degli elettori. Noi, oggi, interrompiamo questa grande anomalia italiana, dando vita a un Governo politico, pienamente rappresentativo della volontà popolare».
Questo presunto legame diretto tra volontà del popolo e governo appartiene ad una visione poco avvezza a considerare l’irriducibile ricchezza del pluralismo parlamentare. In realtà, Giorgia Meloni ad un certo punto fa un’affermazione che va nella direzione opposta: «io non intendo assecondare quella deriva secondo la quale la democrazia appartiene ad alcuni più che ad altri». Ma poi rilancia la proposta di «una riforma che consenta all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”. Se con ciò intende dire che è tempo sprecato discutere e confrontarsi (ma il Parlamento dovrebbe servire proprio ad assolvere a questa funzione democratica) e che spetta unicamente al Governo decidere, allora è del tutto inutile citare Montesquieu, come ha fatto Giorgia Meloni.
In questa visione poco rispettosa della divisione dei poteri, si inserisce anche la revisione della Carta Costituzionale: «siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia abbia bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare». Nel programma della coalizione del centrodestra infatti c’è la proposta dell’elezione diretta del Capo dello Stato. Anche in questo caso emerge l’idea di una sovranità popolare che debba esprimersi direttamente, scegliendo il Presidente della Repubblica. Perché questo modello garantisca maggiore stabilità, non è detto.
Invece viene data un’indicazione sul tipo di presidenzialismo: «Vogliamo partire dall’ipotesi di un semipresidenzialismo sul modello francese». In realtà nel programma del centrodestra di questo non si parla. Si tratta di un’aggiunta non da poco. Un conto è modificare soltanto il sistema di elezione del Presidente della Repubblica, passando la competenza dal Parlamento agli elettori. Altra cosa, con un impatto assai più forte sugli equilibri costituzionali, è modificare i poteri del Capo dello Stato (che sono assai diversi tra Italia e Francia). Ma se il progetto del semipresidenzialismo nel programma della coalizione non c’era, come si combina adesso con il rispetto della volontà popolare? L’impressione è che il popolo sia una categoria strumentale, da utilizzare con forza quando fa comodo e da tralasciare quando prevalgono altri interessi.
Un’ultima annotazione sul concetto di equità, che sicuramente è da annoverare tra i valori costituzionali. Giorgia Meloni, riferendosi al fisco, annuncia una «riforma all’insegna dell’equità». Subito dopo esemplifica il concetto con «l’estensione della tassa piatta per le partite IVA dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato». Ciò significherebbe ampliare la differenza di trattamento tra i redditi dei lavoratori dipendenti ai quali viene applicata un’imposta progressiva e quelli dei lavoratori autonomi che usufruiscono di una tassa proporzionale. Un Governo può anche decidere di favorire le partire IVA a discapito degli altri lavoratori, ma l’equità è tutto un altro programma.