La presenza della polizia morale nelle strade non è un fenomeno recente nella storia della Repubblica Islamica. Ha avuto diversi nomi nel corso di quattro decenni della sua evoluzione. Ad oggi, però, è definita “Gasht-e Ershad” (letteralmente la pattuglia dell’orientamento) dove Ershad significa “illustrare/indicare la retta via”. A livello teologico fa riferimento “all’ingiungere il bene e proibire il male”, uno dei dieci ancillari dei duodecimani, che significa ingiungere ciò che è giusto e vietare ciò che è riprovevole.
Nel contesto della Repubblica Islamica, per “ingiungere” si intende intervenire direttamente con la forza qualora ci fosse la necessità. Questo è ciò che ha subito (anche) Mahsa Amini, ragazza curda di Saqqez, città al confine con l’Iraq. Il 13 Settembre viene arrestata dalla polizia perché indossa inadeguatamente il velo, resiste all’arresto e viene condotta in un centro di detenzione per essere sottoposta a un corso sull’hijab. Peccato che il 16 settembre muoia in ospedale in seguito alle ferite riportate. Alcune fonti (non ancora confermate) affermano che sia stata picchiata e abbia battuto la testa, cosa che le ha causato un’emorragia cerebrale.
Le prime conseguenze
La morte di Mahsa Amini ha subito scatenato le proteste nelle città curde, poi in quasi tutto il paese. La risposta delle autorità è stata, come di consueto, immediata e violenta. Si tratta di un copione già visto in passato: la propaganda mediatica distorce la realtà, sostiene che le proteste siano fomentate dall’estero (specialmente da americani e israeliani) con l’appoggio di istigatori e rivoltosi interni. Seguono la repressione in piazza, l’ondata di arresti e l’interruzione diffusa di internet. I manifestanti, dal canto loro, non sono affatto timidi; i video diffusi sui social mostrano come siano in grado di contrastare la repressione delle forze di ordine, picchiare gli agenti e ributtare le granate di lacrimogeni contro le forze dell’ordine.
Le successive evoluzioni
Ad effetto domino, le città coinvolte si sono moltiplicate. Pian piano anche i VIP iraniani hanno cominciato a prendere posizione, cosa abbastanza rara e senza precedenti, o almeno non su così larga scala. Tra loro c’è il regista Asghar Farhadi fino a personaggi come Mehran Modiri (popolarissima figura della TV di stato) dove in un video chiede esplicitamente al governo di non utilizzare nemmeno un fotogramma delle sue opere finché gli iraniani non abbiano ricevuto le loro risposte. Molti giocatori della nazionale di calcio hanno pubblicato post sui social affermando il loro appoggio ai manifestanti (Azmoun, Jahanbakhsh, Taremi e Beiranvand e così via).
Il giornale riformista Sharq, il 28 Settembre, in un articolo intitolato “Noi siamo giornalisti, signor giudice” ha svelato l’arresto di una sua giornalista, colei che per primo aveva scritto della morte di Mahsa Amini.
Malgrado la risposta oppressiva, la mobilitazione ha continuato a evolversi. Ci sono stati raduni in più di 110 università iraniane e numerosissime scuole. Secondo il sito ufficiale dell’Imam Jom’a dei sunniti di Zahedan, città in confine a Pakistan, di etnia baluci e a prevalenza sunnita, durante le proteste del 30 Settembre ci sono stati più di 40 morti e più di 100 feriti. Nel frattempo però, i media governativi parlano di un attacco terroristico del gruppo Jaish ul-Adl.
La notte del 2 ottobre, i video sui social mostrano le forze di sicurezza assediare il campus dell’università Sharif di Tehran, sparare gas lacrimogeni e inseguire dozzine di studenti intrappolati nel parcheggio dell’università. Un assalto che porta immediatamente alla mente episodi analoghi risalenti al 1999.
Prossimamente?
Mahsa era diversa, non era attivista né femminista, né secessionista e nemmeno sostenitrice dell’opposizione. Era solo una ragazza che si trovava “in giro da quelle parti” ma il morso del cane rabbioso della pattuglia della retta via è riuscito a problematizzare anche questo.
Mahsa non è e non sarà l’ultima vittima di quest’ondata di proteste. Proteste a cui, purtroppo, non partecipa tutta la società iraniana, come potrebbe sembrare. C’è ancora un ceto che supporta e sopporta il regime senza se e senza ma. Per questo diventa quasi impossibile prevedere lo svilupparsi delle manifestazioni, perché dipende molto dalla risposta del regime. Se deciderà di aumentare vertiginosamente la repressione e la violenza (come di consueto), non sappiamo come reagiranno i manifestanti. Non è certo neppure lo stato della salute di Ali Khamenei, per il quale si vocifera un’inguaribile occlusione intestinale.
Perciò, la morte di Mahsa Amini ci pone davanti un paio di domande a cui è difficile rispondere: quali sono i limiti della responsabilità sociale di un fedele o di un governo teocratico? È possibile, per il regime, immaginare la conciliazione tra un hijab facoltativo e il dovere di un fedele a “ingiungere il bene e proibire il male”?