Con la consueta sinergia degli apparati di sicurezza, mentre le autorità italiane vietano l’ingresso nelle acque territoriali per lo sbarco dei naufraghi sulla base di interpretazioni erronee del diritto internazionale, i libici minacciano di sparare razzi sugli aerei della società civile, che con i loro avvistamenti salvano vite e documentano i respingimenti illegali delegati alla sedicente Guardia costiera libica. Alla quale stanno arrivando dall’Italia altre 14 motovedette per intercettare anche in acque internazionali i barconi carichi di persone in fuga dai lager, dalle torture e dallo sfruttamento schiavistico e sessuale. E poi ci raccontano che gli accordi con i libici serv ono a combattere l’immigrazione illegale. Gli effetti perversi di questi accordi sono nasconti nelle profondità del Mediterraneo e nei campi di detenzione in territorio libico. Tracce evidenti di questa tragedia umanitaria sono evidenti sui corpi dei naufraghi che dopo i soccorsi riescono ad essere sbarcati nel nostro paese. Sono anni che i libici puntano armi da fuoco e sparano sui barconi carichi di migranti e sulle imbarcazioni delle ONG che operano attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, soprattutto da quando è stato concluso il Memorandum d’intesa Itali-Libia nel 2017.
Non bastano i rapporti delle Nazioni Unite che denunciano le gravissime e sistematiche violazioni dei diritti umani subite dai migranti in Libia, non bastano le voci che vengono dalle navi delle ONG che documentano come queste abbiano agito nel pieno rispetto del diritto internazionale, avvisando tempestivamente tutti gli Stati. Che sarebbero per primi responsabili di operare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, nonostante una suddivisione delle zone SAR (ricerca e salvataggio) che non corrisponde alle esigenze di garantire coordinamento ed interventi tempestivi finalizzati allo sbarco in un porto sicuro, che secondo i rapporti delle Nazioni Unite, non può essere garantito in Libia. Si può quindi smentire quanto affermato dal Viminale che continua a non riconoscere quello che ormai avviene nella norma, che le navi umanitarie abbiano tempestivamente avvertito le autorità competenti, e si prepara ad adottare altri divieti di ingresso privi di fondamento, come fece Salvini a partire dal mese di giugno del 2018 (caso Aquarius).
Si rispolverano vecchie tesi, sconfitte dalle decisioni della Giurisprudenza, che ha archiviato le indagini contro le ONG, e dai rapporti degli organismi internazionali, ma ancora utili per sostenere la propaganda leghista e sovranista. Secondo queste tesi, lanciate nel 2018 al tempo della campagna mediatico-giudiziaria contro le ONG, di governo “la minaccia per la sicurezza sta nel flusso straordinario degli sbarchi: non potendo verificare lo status di rifugiato a bordo, il nostro Stato, una volta adempiuto agli obblighi di ricerca e soccorso, può rifiutare l’attracco specifico in uno dei suoi porti a cose normali, figuriamoci quando ci sono degli accordi, convenzioni ratificate e conferenze (quella che regola i salvataggi è la Conferenza di Valencia, ndr) dove i contraenti si sono già dati delle regole per risolvere serenamente casi simili”. Ma secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Per la Corte di Cassazione (caso Rckete) e per i numerosi giudici che hanno archiviato le accuse contro le ONG, deve prevalere una diversa interpretazione dell’art. 33 (principio di non respingimento) della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e delle Convenzioni internazionali di diritto marittimo. I naufraghi non sono “clandestini”, non possono essere condannati a restare a tempo indeterminato sulla nave che li ha soccorsi perchè gli Stati costieri rifiutano lo sbarco in un porto sicuro, e lo sbarco deve avvenire in un tempo ragionevole, tale da non aggravare una situazione già molto difficile. In nessun caso si può distinguere tra eventi occasionali e attività sistematica e continuativa ai fini della applicazione delle norme relative ai soccorsi in mare effettuati da navi private.
Nel corso della Conferenza IMO (International Maritime Organization) di Valencia del 1997 il Mar Mediterraneo è stato suddiviso in diverse zone SAR (ricerca e salvataggio) tra i Paesi costieri. Sono zone di responsabilità per i soccorsi in mare e non di sovranità nazionale. Dal 2018 esiste una zona SAR libica che le autorità di Tripoli hanno gestito prima sotto coordinamento italiano (missione NAURAS) e dal 2020 in piena autonomia ma senza riuscire a costituire una Cenrale di coordinamento dei soccorsi unificata.(MRCC). Prova evidente della divisione che spezza il paese in due parti con milizie ed autorità di governo tra loro contrapposte. Lo scorso anno la sedicente guardia costiera libica, con il supporto di Frontex, e degli Stati europei, ha intercettato in acque internazionali oltre 30.000 persone, tra le quali molte donne e bambini, poi ricondotti nei campi di detenzione in Libia o scomparsi nel nulla.
Gli Stati sono obbligati a garantire il coordinamento dei soccorsi anche al di fuori delle proprie acque di competenza SAR quando altri Stati competenti non possano o non vogliano intervenire, al fine superiore di salvaguardare la vita umana in mare, principio iderogabile di diritto cogente. I comandanti delle navi, qualunque sia la bandiera che battono, se informati della presenza di una imbarcazione in stato di pericolo (distress) che possono raggiungere mettendo in salvo vite umane sono tenuti a procedere alla massima velocità ( secondo le Convenzioni UNCLOS e SOLAS). Lo Stato richiesto di un porto di sbarco sicuro (POS) non può trasferire la responsabilità di indicare tale porto alle autorità di un paese ancora diviso come la Libia, che non garantisce i diritti umani o che, come Malta, non risponde generalmente alla richiesta di POS per naufraghi soccorsi al di fuori delle proprie acque territoriali. Non esiste una resposabilità primaria dello Stato di bandiera di fornire un Porto sicuro di sbarco, ed in questo senso è unanime la giurisprudenza italiana.
Le Convenzioni internazionali, non certo la Conferenza di Valencia, che non può prevalere sulle Convenzioni internazionali ( UNCLOS, SOLAS e SAR), stabiliscono precisi oblighi di soccorso a carico degli Stati, vietano qualsiasi discriminazione tra le persone soccorse in mare, che sono naufraghi e non “clandestini” da trasportare da una costa all’altra, Si può dunque fissare il principio che, in assenza di prove di pericolosità evidente, lo sbarco dei naufraghi non implica alcun pericolo per la sicurezza nazionale. Come si tentò di argomentare con scarso successo nel caso Open Arms del 2019, per il quale ministro Salvini è ancora sotto processo a Palermo.
I divieti che si annunciano sono forieri di denunce penali e di un ritorno alla stagione delle inchieste contro le ONG, “colluse” con i trafficanti, o quantomeno responsabili di avere “traghettato” migliaia di persone. Altre falsità che possono colpire come proiettili i soccorsi operati da navi civili, quando ormai gli sbarchi dalle navi umanitarie riguardano una minima parte dei soccorsi operati nel Mediterraneo centrale anche dai mezzi dello Stato, e sono molto meno numerosi degli “sbarchi in autonomia”, sempre più frequenti. Non sono certo le navi umanitarie ed i loro equipaggi, tanto meno gli aerei civili che avvistano imbarcazioni in difficoltà, responsabili di un “flusso straordinario di sbarchi”, tale da costituire un pericolo per la sicurezza nazionale.
In questo clima di falsificazione dei fatti e di larvate minacce di divieti amministrativi e di nuove denunce penali contro gli operatori umanitari, il 2 novembre si rinnovano tacitamente gli accordi con i libici, che minacciano di abbattere gli aerei e intercettare le navi delle ONG che vigilano sul Mediterraneo centrale, impegnandosi contro gli abbandoni in mare ed i sequestri in acque internazionali. I libici operano sempre più evidentemente su diretta commissione degli Stati europei e con il concorso attivo di Frontex e di altre agenzie di sicurezza europee. Anche se la Turchia sta prendendo il controllo dei porti della Tripolitania. Tante ragioni in piu’ per denunciare il Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2017 che la Meloni vuole inasprire con ulteriori aiuti alle milizie libiche colpevoli di crimini contro l’umanità. Il principale obiettivo è il blocco delle ONG anche attraverso attività di intelligence condivise con Frontex, come nel 2017, ai tempi di Minniti, non certo il blocco delle partenze che sono al contrario favorite dalla commistione tra bande criminali e agenti istituzionali.
Il Parlamento Ue ha rifiutato di approvare il bilancio 2020 di Frontex, per la mancata tutela dei diritti fondamentali delle persone migranti. Ma nel Mediterraneo centrale Frontex opera in stretto coordinamento con le autorità maltesi ed italiane. La collaborazione di queste autorità e di Frontex con i libici, che non rispettano i diritti umani e la vita dei migranti, e minacciano gli operatori umanitari, deve diventare oggetto di una indagine internazionale da trasmettere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per violazione sistematica del Regolamento n.656 del 2014 che antepone il dovere di soccorso e la salvaguardia della vita delle persone, alla difesa dei confini, agli accordi bilaterali ed alla lotta contro l’immigrazione “illegale”.
La Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo ha ritenuto, a partire dal caso Hirsi nel 2012, che “gli Stati non possono aggirare gli obblighi della CEDU stipulando accordi con Stati terzi, ma al contrario, devono assicurarsi della compatibilità con la CEDU di tutti gli altri obblighi assunti per non esporsi al rischio di condanne per inadempimento da parte della Corte, in particolare rispetto ai divieti di respingimento derivanti dagli articoli 3 e 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU”. La Corte rileva poi, riguardo del divieto di respingimenti collettivi, che “se l’art. 4 Prot. 4 si applicasse solo alle espulsioni dal territorio degli Stati parte alla Convenzione, una componente significativa degli attuali fenomeni migratori non ricadrebbe sotto l’ambito di applicazione della disposizione nonostante che le condotte che essa intende proibire si realizzino ugualmente fuori del territorio e in particolare, come nel caso di specie, in alto mare … l’art. 4 pertanto sarebbe privo di effettività in pratica con riguardo a tali situazioni sebbene esse siano in costante crescita”.
Ancora oggi le autorità utaliane non rispondono alla richiesta di un POS (Place of safety) lanciata ieri dalle due navi delle ONG che attualmente si trovano nel Canale di Sicilia. Nessuno Stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar, o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo Stato di bandiera della nave soccorritrice, Appare quindi fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre anche al di fuori della propria zona SAR gli interventi necessari, nel tempo più rapido possibile, attivando tutte le forme di coordinamento interstatale e con le navi civili previste dalla Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979.