Trento – L’impatto delle politiche di militarizzazione su clima ed emergenza ambientale, la relazione tra cambiamento climatico e i conflitti e la transizione energetica sono stati i tre macro temi affrontati il 28 e 29 ottobre nelle giornate dedicate al Disarmo climatico a Trento, organizzate dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, l’Associazione 46° Parallelo e il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani e in collaborazione con il MUSE e l’Agenzia provinciale per la protezione dell’Ambiente del Trentino Agenda 2030, nella sala di Rappresentanza del Consiglio Regionale della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol.
La prima sessione, moderata da Roberto Barbiero di APPA Trentino, ha messo in relazione inquinamento, guerra e industria militare.
“C’è – ha spiegato Pere Brunet del Centre Delas – una vasta rete di interessi e potere globali, guidata da una manciata di attori privati sovranazionali che detengono un controllo non democratico su aziende e governi”.
Un’industria, quella militare, profondamente inquinante.
“La guerra e la preparazione alla guerra – ha proseguito – sono attività ad alta intensità di combustibili fossili. Dal 2001 Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha consumato il 77-80% dell’energia totale.
Con le emissioni associate alle sue attività e quelle legate alla produzione di armi si arriva a 212milioni di tonnellate di emissioni nel 2017”.
Emissioni che sono comunque difficilmente conteggiabili, perché gli Stati non le comunicano.
“Né le forze armate, né i responsabili politici, né la società civile sanno realmente quante siano grandi le emissioni militari. Questo è un enorme punto cieco nei nostri piani globali per affrontare la crisi climatica” ha aggiunto Ellie Kinney del CEOBS.
Con la giornalista di Greenpeace Sofia Basso siamo invece tornati in Italia.
“Nonostante gli effetti di gas e petrolio sulla crisi climatica e sulla pace – ha spiegato – il nostro Paese destina circa il 70% della sua spesa per le missioni militari in operazioni a tutela delle fonti fossili, ovvero 870milioni di euro nel 2022. Inoltre due delle missioni nazionali hanno come primo compito la protezione di asset Eni in acque internazionali. Questo vale anche per l’Unione Europea, circa due terzi delle missioni targate Ue sono collegate alle fonti fossili”.
Di causa-effetto della guerra e di azioni per la giustizia climatica si è parlato nella seconda sessione, moderata da Alice Pistolesi dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo. Gli Stati stanno reagendo al cambiamento climatico con la militarizzazione.
“Si sta agendo – ha detto Nick Buxton del Transnational Institute – per preparare un futuro militarizzato, prevedendo che il cambiamento climatico creerà un mondo di scarsità che richiederà sicurezza.
Ciò si basa sull’idea che le risorse saranno limitate, che questo causerà conflitti e che saranno necessarie forze di sicurezza e armate per gestirle.
Il cambiamento climatico viene usato per giustificare l’aumento delle spese militari, anziché il contrario. Questo atteggiamento si riflette anche sulle frontiere. È molto evidente che in molti piani nazionali ci si concentra sulla “minaccia” dei migranti”.
L’insicurezza climatica può quindi essere motore di conflitto e di profonde ingiustizie. “C’è da considerare, ad esempio, la diminuzione della produzione agricola – ha detto Marzio Marzorati di Legambiente – e dell’uso intensivo del suolo che porta a desertificazione, degrado e accaparramento dei suoli fertili.
Altro tema è quello del calcolo economico dell’esaurimento delle risorse naturali, ora molto difficile perché l’economica non ne tiene conto. Se una popolazione esaurisce le riserve minerali, le foreste, i suoi terreni, se le acque sono inquinate, tutto questo non rientra nel calcolo della produttività economica”.
Di azioni di giustizia climatica si è parlato con Agnese Casadei di Friday for future Italia, movimento che è riuscito in un anno a portare 8milioni di persone in piazza. “Ci stiamo interrogando da tempo – ha detto– su come poter inglobare la causa pacifista in quella per l’ambiente, perché rileviamo che sia necessario che i due mondi si parlino sempre di più. Il movimento, inoltre, è nato in Europa ma sta cercando di non avere un punto di vista occidentale, ma globale”.
Di transizione verso la sicurezza climatica si è parlato nella sessione conclusiva, moderata da Daniele Taurino, del Movimento Nonviolento. Una transizione che non deve andare ad accentuare le disuguaglianze, sia tra Stati che all’interno degli Stati.
“A livello globale, l’1% più ricco – ha detto Gianluca Ruggieri dell’Università dell’Insubria – è responsabile del 23% di aumento di emissioni, mentre il 50% più povero lo è del 16%. Una cosa di cui dobbiamo tenere conto è che la transizione non può pesare sulle fasce più deboli”.
Di alcuni esempi di azione partecipativa per il clima ha parlato Agnese Bertello di Ascolto Attivo. “Esistono vari metodi utili e partecipativi per affrontare in maniera nuova queste tematiche. Attraverso il dibattito pubblico, i sondaggi deliberativi e le assemblee, infatti, si dà ai cittadini una serie di competenze che consentono l’elaborazione di proposte efficaci”.
Azioni partecipative per il clima sono state messe in campo in Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna.
Ma quale può essere il ruolo del diritto quando si parla di giustizia climatica ?
A rispondere è stato Luciano Butti, avvocato e docente dell’Università di Padova. “Il diritto nazionale – ha detto – può, ad esempio, ovviare alle difficoltà del diritto internazionale creando reti tra stati tecnologicamente avanzati e stati in transizione economica e tecnologica. Può, inoltre, dare voce a chi non ce l’ha e distribuire le esternalità negative non sulle fasce più deboli”.