Bisognava aspettare Putin, “il benzinaio con l’atomica” (così Adriano Sofri su il foglio del 28.10) che riforniva e rifornisce di idrocarburi metà della Terra, per sentir deplorare il fatto che la guerra in Ucraina danneggia la lotta contro il cambiamento climatico. C’è qualcuno di coloro che, schierati senza se e senza ma per l’invio di armi all’Ucraina, cioè per la guerra, abbia anche solo accennato agli effetti negativi di quel conflitto sulla lotta ai cambiamenti climatici? O di coloro che, invocando la pace (parteciperanno anche alla manifestazione del 5.11 a Roma), affermano senza esitazioni che le condizioni della pace sono il ritiro delle truppe russe da tutti i territori annessi?
Cioè la resa di Putin come unica alternativa alla resa di Zelensky? Senza mai prendere in considerazione – anzi irridendo all’eventualità, purtroppo remota – che tra quella due “rese” ci fossero, e ci sono ancora, ampie possibilità di mediazione: a partire dal cessate il fuoco e poi riprendendo e aggiornando gli accordi di Minsk, traditi da entrambe le parti, ma il cui rispetto avrebbe non solo evitato questa catastrofe all’Ucraina, ma anche dilazionato l’apocalisse climatica che questa guerra sta accelerando. E, soprattutto, senza riflettere sul fatto che la “vittoria” dell’Ucraina, un evento che si insegue senza mai dire in che cosa consisterebbe, avrebbe comunque per prezzo la morte di altre decine di migliaia di esseri umani da entrambe le parti, la devastazione completa del territorio e delle infrastrutture del Paese e, sempre più vicino, l’olocausto nucleare. Ma non la caduta di Putin, che, caso mai, sarebbe verosimilmente sostituito da gente ancora più pericolosa, alla Prigozin o alla Kadirov, e non certo da un élite più ragionevole e conciliante. O forse – e sembra questo l’obiettivo di chi punta alla “vittoria” – dalla disgregazione del suo impero, trasformato in una grande Libia in balia delle potenze di tutto il pianeta, fameliche delle sue risorse: dalla Cina alla Nato, dalla Turchia all’Isis. Con il risultato di rendere permanente e incontrollabile lo stato di guerra.
Ma sembrano destare più attenzioni le false preoccupazioni di Putin per il clima, su cui è facile ironizzare, delle recenti dichiarazioni di scienziati come Johan Rockstrom, dell’Unep o di altre agenzie di monitoraggio del clima, che ci avvertono che il tempo per invertire radicalmente rotta sta per scadere. Siamo alla vigilia dell’ennesima farsa climatica rappresentata dalla Cop27, che si svolgerà in Egitto, nella ridente stazione balneare di Sharm-el-Sheik, ospite di una delle più feroci dittature del pianeta: ben intenzionata a utilizzare questa inutile sfilata per legittimare i suoi crimini (a partire dall’assassinio di Regeni), per battere cassa dai Paesi più “ricchi” e più responsabili della crisi ambientale, ma certo non per chiedere loro di lasciare sottoterra carbone e petrolio, o il gas che l’Eni ha da poco scoperto nei fondali dell’Egitto.
D’altronde, per venire a casa nostra, nel suo discorso programmatico Giorgia Meloni ha rilanciato le trivelle nell’Adriatico, a cui si era opposta quando doveva ancora raggranellare un modesto seguito per il suo partito, mentre la stampa che l’ha sempre appoggiata irride a Greta e ai “gretini”, ribadendo che qualsiasi misura finalizzata al contenimento del disastro climatico e della devastazione del territorio sarebbe un attacco ai consumi, al benessere della nazione, alla crescita del Pil, all’accumulazione del capitale, che poi sono la stessa cosa. Quella per cui si sono battuti anche tutti i governi che l’hanno preceduta. Tanto è vero che nessuno, dall’opposizione, ha tracciato una discriminante nei confronti del governo richiamando l’impellenza della lotta alla crisi climatica e ambientale e ai disastri creati dalla guerra, la necessità di incentrare su di essa tutta la politica estera nei confronti dell’Unione Europea, della Nato e del Mediterraneo, come condizioni preliminari per poter affrontare i problemi del reddito, del lavoro, della salute, dell’istruzione e di tutti gli altri diritti in condizioni che saranno sempre più difficili.
Lo faranno le nuove generazioni, quelle di Greta, che sabato scorso sono scese in piazza in massa a Bologna insieme al collettivo operaio della Gkn, che ha trasformato il proprio stabilimento in una “fabbrica pubblica socialmente integrata”. Insieme a un rinnovato movimento contadino che sa, perché la pratica, che cos’è la sovranità alimentare e alla mobilitazione contro il passante autostradale, l’ennesima grande opera inutile e dannosa. Loro sanno che non è più tempo di aspettare, né di mostrare acquiescenza verso chi ci sta portando alla rovina. La fabbrica socialmente integrata del collettivo della Gkn è un modello non solo per rivendicare soluzioni che chi governa non sa nemmeno concepire, ma per passare dalle parole ai fatti: nelle scuole, nelle università, nei quartieri, in ogni comunità esistente o possibile.