Sono oltre 23mila i bambini e i ragazzi costretti a vivere lontano dai propri genitori (e 6 su 10 sono italiani). Minori sradicati dalle proprie famiglie, confusi e privati degli affetti più cari. Una lontananza che a volte dipende strettamente da cause materiali, dalla povertà o da impedimenti concreti e altre volte, invece, dalla rottura dei legami familiari, dall’assenza di qualsiasi progetto educativo, se non addirittura da abusi, violenze e maltrattamenti.
Sono i dati 2018-2020 raccolti dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in collaborazione con le Procure minorili e presentati nel volume “La tutela dei minorenni in comunità”, giunto alla sua quarta edizione. Più precisamente sono 23.122 i bambini e i ragazzi ospiti delle 3.605 comunità per minorenni attive in Italia. La precedente ricerca aveva rilevato che a fine 2017 i minorenni in comunità erano 32.185, accolti in 4.027 strutture. Nel 2020, dunque, si rileva un calo di circa 9.000 ospiti, riconducibile per lo più alla diminuzione dei minori stranieri non accompagnati (Msna) presenti nel nostro Paese. Questi ultimi sono passati – stando ai dati del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – dai 18.303 del 31 dicembre 2017 ai 7.080 del 31 dicembre 2020. Il numero medio di ospiti per struttura a fine 2020 è 6,4, identico al dato del 2018. I distretti con maggior numero di minorenni sono Milano (13,4%), Palermo (11,1%), Bologna (8,9%), Napoli (7,5%), Roma (6,6%) e Venezia (6%). Dai dati raccolti emerge che il 55% degli ospiti ha un’età compresa tra 14 e 17 anni, il 15% tra 6 e 10 e il 14% tra 11 e 13. Sono presenti anche maggiorenni, che su base nazionale risultano 2.745 al 31 dicembre 2020, pari all’11,9% del totale.
La maggior parte dei minorenni in comunità è di cittadinanza italiana (55% nel 2018, 61% nel 2019 e 60% nel 2020). Gli stranieri a fine 2020 sono il 40%, dei quali il 24% Msna. Il 61% è di genere maschile e il 39% femminile. Rispetto poi ai tempi di permanenza in struttura, emerge che per il 26 % sono superiori a due anni (ma va detto che la rilevazione in questo caso è stata effettuata solo sul 65% dei minorenni in comunità presenti in Italia). In alcuni distretti (Torino, Genova e Trento) la permanenza superiore ai 24 mesi riguarda più del 30% degli ospiti, in altri distretti invece si riferisce a meno del 20% (Palermo, Potenza e Campobasso).
La ricerca rileva anche i motivi dell’inserimento in comunità. Il 78% dei bambini e dei ragazzi presenti nelle strutture a fine 2020, secondo i dati forniti da 18 procure su 29, vi è stato collocato su disposizione dell’Autorità giudiziaria, il 12% per decisione consensuale dei genitori e il 10% per allontanamento d’urgenza ai sensi dell’articolo 403 del Codice Civile. Quest’ultima rilevazione rappresenta una novità, che consente inoltre di misurarne la percentuale per ciascun distretto: a Salerno vi si è fatto ricorso per il 56,6% dei casi, mentre all’Aquila e Potenza non risultano allontanamenti d’urgenza nel periodo preso in considerazione. Per la prima volta è stato pubblicato il numero dei controlli effettuati dalle Procure minorili sulle comunità. Un vero e proprio record in termini assoluti tra ispezioni e sopralluoghi compiuti nel corso 2020 si registra a Bologna (704 su 352 strutture). Altre Procure invece hanno registrato maggiori difficoltà.
Dalla ricerca emerge un quadro in chiaroscuro, dove le ombre sembrano però oscurare le luci e dove persistono problemi irrisolti, a partire dalle mancate attività di coordinamento tra i vari protagonisti del sistema di tutela dei minori e dalle differenze profonde tra le diverse Procure non solo in termini di risorse e mezzi, ma anche per quanto riguarda i criteri di intervento. L’Italia dei minori ha troppi volti, tanti quanti quelli dei distretti (20) a cui fanno capo le Procure minorili. Una diversità, a volte anche profonda, che rischia di determinare -anche in questo campo – inaccettabili disuguaglianze, con trattamenti diversi in base alla provenienza geografica.
Carla Garlatti, Garante per l’infanzia e l’adolescenza, ha infatti parlato di “evidenti differenze tra i distretti che non sono riconducibili soltanto al numero di minori stranieri non accompagnati, ma a una diversa presenza dei servizi sociali”. E alle differenze tra distretti e alla diversa presenza dei servizi sociali si aggiunge poi l’eccessivo frastagliamento del settore. Sono tanti, troppi gli attori in campo, che rispondono ad autorità diverse: i servizi sociali, le comunità e gli educatori fanno capo ai Comuni e in qualche caso alle Regioni, mentre le forze di polizia all’autorità giudiziaria. Ciò determina difficoltà di coordinamento, ritardi e sovrapposizioni. Per non parlare delle difficoltà a inquadrare le varie comunità d’accoglienza che ogni regione classifica in modo diverso, rendendo quasi impossibile la comparazione, oppure della discrezionalità nella scelta delle comunità ospitanti, della scarsità dei controlli rispetto ai servizi resi, della giungla delle rette praticate, delle professionalità che operano in queste strutture, spesso mortificate (a partire dal riconoscimento di giusti compensi) e così via.
Gli oltre 23mila minori che non vivono in una famiglia sono il risultato dell’inefficienza della rete socio-psico-assistenziale che dovrebbe presidiare il settore. Come denunciato nella sua relazione finale dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori, “l’alto numero di minori collocati in strutture residenziali per minorenni (oltre 14.000 su 27.608 minori collocati fuori famiglia) non può trovare giustificazione nella sola carenza di famiglie affidatarie adeguate. La rete socio-psico-assistenziale che si attiva nei procedimenti di allontanamento dei minori non sembra adeguata a produrre interventi rispondenti al raggiungimento del miglior interesse del minore, che è quello di crescere in una famiglia, prioritariamente in quella di origine. Anche il protrarsi del collocamento dei minori in strutture residenziali oltre i due anni condiziona non solo il mantenimento dei legami con la famiglia d’origine, ma anche il processo di crescita del minore in riferimento alla definizione della sua identità personale, determinata da relazioni affettive significative e da dinamiche di appartenenza culturale e sociale che l’istituzionalizzazione non è in grado di produrre.”