Il fatto drammatico di cronaca è inevitabilmente arrivato all’attenzione dell’opinione pubblica
Un agente della Polizia di Stato il 15 settembre si è purtroppo tolto la vita all’interno centro per rimpatri (CPR) di Milano. Non entreremo, in questa fase, nel merito della ridda di ipotesi e ricostruzioni della vicenda.
Ci limiteremo a citare l’ultima ricostruzione secondo cui l’agente fosse sotto “provvedimento” e privato dell’arma. Si sarebbe sparato utilizzando l’arma di un collega riposta nell’armadietto personale della stanza apposita all’interno del CPR, l’armadietto sarebbe stato forzato per poterla prendere.
E’ però di tutta evidenza che nei centri di detenzione ci si suicida con una frequenza ormai più che allarmante. Mentre è più lampante il motivo per il quale si suicida un detenuto, può apparire meno chiaro il motivo che induce un operatore che lavora all’interno della struttura a togliersi la vita.
Nelle 189 carceri italiane opera la Polizia Penitenziaria, nei 10 CPR operano i corpi di pubblica sicurezza, l’Esercito e gli addetti dell’ufficio immigrazione della Questura competente. I sindacati della Polizia di Stato hanno dichiarato che nessuno vuole lavorare all’interno dei CPR, motivo per il quale c’è un notevole turnover.
Statisticamente risulta, ad esempio, che tra gli operatori della polizia penitenziaria l’incidenza di suicidi è maggiore che nella popolazione.
Gli psichiatri ben sanno che ci sono depressioni di tipo endogeno, ovvero ci sono persone che per aspetti “genetici” soffrono di questa patologia. Ci sono tuttavia depressioni provocate dal contesto, dalla situazione ambientale. Ci sono anche fasi depressive fisiologiche, come quelle che avvengono ad esempio dopo un lutto.
La situazione delle strutture detentive italiane (carceri, cpr) è ormai ampiamente denunciata. Vengono meno garanzie e diritti: quelli delineati nella Costituzione Italiana, e quelli più specificatamente sanciti dalle norme di legge, che tuttavia nei casi del CPR (legge 40/1998 fatta dai DS, ora PD) sono estremamente carenti.
Si evince quindi che le condizioni di vita in detenzione le quali mettono – le statistiche parlano chiaro – oltremodo sotto stress le persone detenute, finiscono col ripercuotersi anche sugli operatori. Il conseguente stress degli operatori si ripercuoterà sui detenuti creando un circolo vizioso che rende esponenziale il peggioramento delle condizioni di vita all’interno delle strutture, con il rischio concreto della messa in deroga di fatto delle garanzie e diritti previsti.
I diritti e le garanzie sussistono a garanzia della dignità umana, ove vengano elusi ci troviamo di fronte ad una situazione disumanizzante, che non può non coinvolgere tutta la popolazione che si trova all’interno della struttura detentiva, operatori compresi quindi.
Più in generale su Milano Today leggiamo che quest’anno sono purtroppo 50 gli operatori di Polizia di Stato che si sono tolti la vita. Questo pone diverse questioni, la prima riguarda il fatto che ci troviamo di fronte ad una categoria di lavoratori che vive una situazione di disagio che appare diffusa e che andrebbe sanata.
Molto potrebbero fare i sindacati dei corpi di polizia. In una società i diritti del singolo sono strettamente correlati ai diritti della comunità. Diritti e garanzie sussistono proprio per garantire la qualità di vita di tutti. Qualità di vita alla quale a pieno titolo possono e dovrebbero aspirare anche gli operatori di polizia, che prima di tutto sono cittadini e lavoratori.
Solo chi è all’interno delle situazioni ha gli strumenti per comprenderne le cause. In linea più generale, però, le condizioni di malessere diffuso in un corpo dello Stato non possono non ripercuotersi sulla cittadinanza.