Nella giornata di ieri si sono viste molte manifestazioni relative al Climate Global Strike. Queste manifestazioni riportano alla memoria la protesta dell’attivista svedese Greta Thumberg di fronte al Parlamento del suo Paese e la richiesta ai governi di intervenire con forza riguardo al tema dei cambiamenti climatici.
In quanto attivista da 40 anni su queste tematiche, ho osservato che si sono sempre più aggravate, senza alcuna seria intenzione di porvi rimedio o, meglio ancora, di prevenirle. La prevenzione è lettera morta, l’emergenza una normalità.
In modo provocatorio mi viene da pensare e chiedere: ormai anche queste manifestazioni sono strumentalizzate?
In questi mesi che si è fatta sempre più menzione, e forse si farà ricorso, ai combustibili fossili e si sta riparlando di energia nucleare in Italia, dopo ben due referendum abrogativi.
Per riscaldare le abitazioni sono state trovate soluzioni adeguate? Certo! Si consiglia di ridurre l’orario di accensione dei riscaldamenti e di tenere la temperatura ambientale più bassa. Non so perché, ma mi tornano in mente i vari momenti già vissuti di emergenza energetica degli anni ’70, con conseguente austerity, che nessuno oggi menziona.
Non ho intenzione di togliere il primato alla giovane Greta, tuttavia in questo momento mi preme parlare dei due giovani attivisti ugandesi Vanessa Nakate ed Edwin Namakanga.
Nei primi di agosto in Uganda, nel distretto di Mbale, piogge torrenziali hanno provocato danni ingenti, con inondazioni di vaste zone coltivate, smottamenti, case sommerse e migliaia di senzatetto. Un breve filmato pubblicato su Facebook ha documentato questi disastri.
Durante gli studi universitari Vanessa Nakate ha preso coscienza della gravità del problema dei cambiamenti climatici nel suo Paese e delle conseguenze sulla terra. E’ fondatrice di due progetti ambientali: il “Rise Up 4ClimateJustice” e la “Vash Green School”.
Edwin Namakanga è l’autore del video sulle conseguenze dei cambiamenti climatici in Uganda. In un’intervista ha dichiarato: “Vorrei che si comprendesse che siamo in piena emergenza e che abbiamo bisogno di intervenire ora. Quello che posso fare è usare la mia voce perché si metta in moto un cambiamento positivo e sostenibile per tutti. … Negli ultimi anni abbiamo assistito a devastanti inondazioni, che hanno spazzato via i raccolti e le case. Molte persone hanno perso la vita. Poi è arrivata una lunga siccità che ha distrutto i raccolti nella parte settentrionale del Paese, l’innalzamento del livello del lago Vittoria ha costretto tantissime persone ad abbandonare le loro case e nella regione orientale dell’Uganda si sono verificate frane. Abbiamo assistito anche alla deforestazione delle aree boschive native, dove investitori stranieri hanno deciso di avviare la monocoltura della canna da zucchero. Una scelta che sconvolge l’ecosistema e danneggia la fauna selvatica”.
Secondo la Banca Mondiale entro il 2025 circa 86 milioni di africani saranno costretti a migrare o nelle terre vicine, anche loro compromesse, o verso lidi più lontani. Secondo gli studi dell’IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change) il surriscaldamento del globo terrestre generato dalla macchina industriale umana sta accelerando il cambiamento climatico nel continente africano.
I giovani africani, sempre più presenti sui social, sanno che nonostante il loro continente sia quello a più basso tasso di emissioni – circa il 7% – subisce più di altri l’impatto ambientale con queste catastrofi e denunciano le politiche di sfruttamento dei combustibili fossili, delle trivellazioni e delle terre rare attuate dai paesi industrializzati. Come ripete Vanessa Nakate, però, “non possiamo mangiare carbone, non possiamo bere petrolio … Il cambiamento climatico è qualcosa di più di dati e statistiche; riguarda le persone che ne pagano le conseguenze. Proprio in questo momento”.
Le voci degli attivisti non vengono solo dall’Uganda, ma si stanno diffondendo anche in Congo, con Guillaume Kalonji: un’altra storia da raccontare, magari in una prossima puntata.
Ora l’evento che suscita l’attenzione di tutti gli attivisti, (e chissà se anche dei governi!) è il prossimo incontro della COP27 in programma a novembre in Egitto. Sempre la Nakat ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera: “Stiamo lavorando per avere una giusta rappresentanza di attivisti africani e sulla campagna per la compensazione dei danni e delle perdite causate dal cambiamento climatico”
In Egitto però la libertà di protesta pacifica è a rischio. Il Ministro degli Esteri ha dichiarato in una conferenza che il governo sta attrezzando a Sharm el-Sheikh una “struttura adiacente alla sede della conferenza” dove gli attivisti potrebbero svolgere le loro proteste in una delle giornate dei negoziati”. A prima vista sembrerebbe una dichiarazione di apertura, ma 36 Ong la guardano con preoccupazione.
Visto l’attuale clima di repressione delle proteste, equivalente a una vera e propria criminalizzazione attraverso divieti di viaggio, minacce, interrogatori, arresti e indagini per accuse infondate, c’è il grave rischio che le autorità non tollerino proteste al di fuori della struttura attrezzata dal governo. A supporto di questa preoccupazione c’è la legge 107 del 2013 (in aggiunta alla legge 10 del 1914) sui raduni pubblici, le processioni e le proteste pacifiche, che garantisce alle forze di sicurezza pieni poteri di vietare le proteste e di ricorrere alla forza per scioglierle. Proprio per questo è stata avanzata la richiesta che il governo egiziano autorizzi proteste pacifiche e riunioni durante tutto lo svolgimento della COP27 in ogni parte dell’Egitto, compresa la capitale, Il Cairo.