Non è trascorso molto tempo dalla notizia della morte della Regina Elisabetta II, avvenuta lo scorso 8 settembre, perché da alcune delle ex colonie inglesi si sollevassero delle voci che reclamano la restituzione delle gemme preziose sottratte durante il periodo coloniale e divenute parte dei Gioielli della Corona. In particolare, l’India reclama il Koh-i-Noor, diamante da 105 carati sottratto dopo la conquista del Punjab, mentre il Sudafrica chiede la restituzione del Great Star of Africa, gemma da 500 carati che si ritiene valga circa 400 milioni di dollari.
Il dominio coloniale è sinonimo di violenza, annientamento e saccheggio: è così che i grandi imperi occidentali si sono assicurati le ricchezze che li hanno resi superpotenze. Quello inglese non è stato da meno: all’epoca della nascita di Elisabetta (1926), futura Regina d’Inghilterra, l’impero britannico governava un quarto della popolazione mondiale. Quando fu incoronata, nel 1952, tale impero si stava ormai sgretolando, ma nonostante ciò in molti hanno sottolineato la complicità della sovrana con i crimini dell’impero inglese, per esempio chiudendo un occhio su quella che fu denominata “Operazione Legacy” nell’ambito della quale governo e MI5 distrussero decine di migliaia di file che testimoniavano le atrocità commesse dagli inglesi nelle colonie. Tra le ricchezze saccheggiate ve ne furono alcune di inestimabile valore, come il diamante indiano Koh-i-Noor.
Koh-i-Noor è una parola della lingua punjabi che significa letteralmente “montagna di luce”: tale nome è stato dato ad un diamante di 105 carati, per molto tempo considerato il più grande al mondo. L’India ne ha chiesto la restituzione in diverse occasioni in passato: nel 1947, quando ottenne l’indipendenza dal dominio inglese e nell’anno dell’incoronazione di Elisabetta. Ogni volta, tuttavia, la richiesta è caduta nel vuoto in quanto secondo l’Inghilterra non vi sono le basi legali per concederne la restituzione.
Alcune ricostruzioni fanno risalire la sottrazione del Koh-i-Noor alla seconda metà del XIX secolo quando, dopo un periodo di caos nella storia del trono del Punjab, nella linea di successione reale rimasero solo Duleep Singh, un bambino di 10 anni e la madre, Rani Jindan. Nel 1849 gli inglesi imprigionarono Jindan e costrinsero Duleep a firmare un documento che imponeva la cessione del Kohinoor, tesoro inestimabile simbolo di prestigio e potere, e ogni pretesa di sovranità. Lo storico William Dalrymple ha fatto notare come “Se chiedete a chiunque cosa dovrebbe accadere alle opere d’arte ebraiche rubate dai nazisti, tutti direbbero che ovviamente devono essere restituite ai loro proprietari. Eppure siamo arrivati a non dire la stessa cosa del bottino indiano preso centinaia di anni prima, sempre a colpi di pistola. Qual è la differenza morale tra le cose prese con la forza in epoca coloniale?”.
Anche il Sudafrica ha chiesto la restituzione della Great Star of Africa, un diamante da 530 carati – il più grande diamante grezzo che sia mai stato ritrovato – che si ritiene sia stato rubato dal Sudafrica nel 1905, dal valore di 400 milioni di dollari, incastonato sulla corona della regina. Questa comprenderebbe anche un secondo diamante da 317 carati noto come The Second Star of Africa, tagliato dalla medesima pietra – nota come Diamante Cullinan, dal nome del magnate proprietario della miniera dove è stato rinvenuto. Gli inglesi sostengono che la pietra dalla quale sono state ricavate le due gemme sia stata donata loro in segno di pace, ma il concetto stride con il contesto di dominio coloniale nel quale è avvenuta la “cessione”.
Tali pietre preziose costituiscono oggetti di immenso valore, ma la loro restituzione avrebbe un valore simbolico prima ancora che materiale. Forse proprio per questo è difficile immaginare che la restituzione possa avere davvero luogo.
Valeria Casolaro