“La biologia non ci condanna alla guerra e alla violenza, ma pone le nostre menti dinanzi a una gamma di scelte diverse.” (Carta di Science for Peace) Ma quali sono “le scelte” nonviolente di fronte ai soprusi? Quali le azioni politiche? Come si può essere nonviolentə?
Proseguiamo la nostra conversazione sulla nonviolenza in preparazione della prossima Human week e dell’incontro pubblico che come Z3 abbiamo organizzato presso la sala Consiliare del Municipio3 il 7 ottobre. Nella prima parte di questa intervista avevamo visto come nella parola violenza sia compreso un universo di prevaricazione che va ben al di là della sopraffazione fisica e come il concetto di nonviolenza trascenda i limiti di una banale definizione di “assenza di violenza”, ma si concretizzi in una visione rivoluzionaria che coinvolge la sfera sociale, politica, come quella del nostro quotidiano. In breve: una reale e radicale scelta di vita.
Chiediamo ora ad Annabella Coiro, co-fondatrice del Centro di Nonviolenza Attiva di Milano che cosa significhi fare una scelta nonviolenta.
Come si può essere nonviolentə? È solo una “storia di anime belle” e un poco hippies che non vedono come il mondo sia fatto di aggressioni? Si tratta forse di eroi, o di filosofi, o c’è dell’altro?
Questa domanda mi fa sempre sorridere: insieme alla passività spesso c’è anche il mito di persone con la testa tra le nuvole, un po’ utopiste e poco realiste. Invece, le azioni nonviolente sono molto concrete e sono attuate da persone coraggiose e molto consapevoli.
Non ho una ricetta su come essere nonviolentə – sarebbe molto comodo anche per me!! – però posso parlare di alcuni passi che secondo me sono necessari.
Il primo e il più importante è la scelta. Di fronte a una situazione data, qualunque essa sia, mi sforzo di adoperare la scelta verso cui andrà la mia azione: quale direzione sta per prendere la mia azione? Scelgo o non scelgo di nuocere a qualcunə? A me stessə? All’ambiente?
E una volta aperto il tentativo di una scelta nonviolenta vado a verificare il mio pensiero e la mia azione: come starò dopo averla compiuta? E come staranno le altre persone?
Molti interrogativi insomma, più che certezze, prima di intraprendere l’azione. In genere invece, nei nostri gesti quotidiani avanziamo per automatismi; pensate quanta difficoltà abbiamo a cambiare un’abitudine…
Essere nonviolentə richiede intenzione, consapevolezza, coraggio e determinazione, perché è necessario rompere gli automatismi della propria cultura: la vendetta, l’occhio per occhio, dente per dente è radicato nel nostro modo di relazionarci, fa parte di millenni di cultura prevaricante. Pensate solo come a volte si scatena il “ben ti sta”…. È un pensiero vendicativo, di causa-effetto, non ha niente di evolutivo, conserva e tramanda la tradizione punitiva che si abbatte inesorabilmente per ciò che si è compiuto.
La scelta dell’azione nonviolenta invece è rivoluzionaria, ha come obiettivo principale quello di migliorare l’essere umano, vuole uscire dal bipolarismo buono-cattivo e costruire solidarietà, reciprocità, dialogo, riconoscimento dell’altro, superamento dell’individualismo, della solitudine e in definitiva della sofferenza. L’azione nonviolenta ha un sapore inequivocabile di leggerezza e benessere che tuttə possiamo riconoscere; a tuttə sarà capitato almeno una volta di assaporarlo. Se posso spingermi oltre direi che è una strada verso la felicità.
Un costante esercizio di consapevolezza che ci coinvolge tutti e in ogni momento del nostro quotidiano. Non è facile, gli automatismi semplificano le scelte …
Purtroppo siamo sommersi dalla semplificazione nella dicotomia amico-nemico, bianco-nero, maschio-femmina, natura-cultura, umanesimo-tecnologia, individuo-società. Siamo continuamente uno contro l’altro, riducendoci a chi ha ragione e chi ha torto, cosa è giusto e cosa è sbagliato, CHI è giusto e CHI è sbagliato… pensiamo al pregiudizio che si ha verso popolazioni o etnie… penso ai nomadi per esempio…
Ma come dice Edgar Morin, filosofo e teorico dell’umanesimo planetario, siamo invece immersi nella complessità; l’essere umano porta in sé tutti gli elementi, siamo allo stesso tempo fisici, culturali, cerebrali, individuo e società. “Siamo come un punto in un ologramma, portiamo in seno alla nostra singolarità non solo tutta l’umanità, ma anche quasi tutto il cosmo.”
Se questo pensiero ci attraversasse più spesso, se facesse parte della nostra educazione, sarebbe più difficile dare spazio alla prevaricazione, al sistema vincitori-perdenti, all’annientamento dell’altro e anche alla distruzione della natura.
Per questo la nonviolenza è un atto volontario attivo che richiede sforzo, giacché non ne abbiamo esperienza nei nostri vissuti quotidiani infantili, in cui viviamo invece una tradizione che giustifica la violenza e la sofferenza.
Non c’è da meravigliarci, quindi, se non è “normale” compiere o vedere azioni nonviolente. Per tornare alla domanda iniziale, non esistono anime belle o brutte, esiste un sistema strutturale, culturale, un paradigma inadeguato all’umanità, da cambiare decisamente, senza retorica, con molta pratica e molta intenzione, a livello individuale e sociale. Ognunə può scegliere la propria parte, se è nelle condizioni di farlo.
Senza questa prospettiva non credo sia possibile lo sviluppo di un mondo sostenibile sul piano sociale, culturale, ambientale ed economico.
Hai detto che nonviolenza non è solo rifiuto della violenza, ma una scelta di vita e anche che è rivoluzionaria. Sul piano politico e sociale, un vero strumento di lotta. E allora, quali sono i suoi mezzi? Gandhi parlava di “forza della sincerità” e di “non-collaborazione” con il governo britannico come forme di pressione di massa. Ce ne sono altri?
Date le multiformi dimensioni della nonviolenza, risulta piuttosto evidente quanti possano essere gli strumenti di applicazione, oltre a quelli da te citati. Ne riporto alcuni altri che ho sperimentato in prima persona e che sono per me significativi.
Un potente strumento, personale e sociale, è la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Non mi dilungo molto su questo perché ci sono molti testi e se ne parla tanto, ma è importante sottolineare che a volte si pensa che per una cultura della nonviolenza sia necessario eliminare i conflitti. Questo non è possibile, perché la diversità fa parte dell’umanità e i conflitti sono importanti per potersi confrontare. È necessario invece imparare a trasformarli, superando anche il concetto di “gestione dei conflitti” che somiglia molto al “controllo”, e come tale non permette un buon dialogo aperto.
Si possono poi nominare le pietre miliari dell’azione e dell’attitudine nonviolenta: il dialogo, la creatività, l’ascolto, l’empatia, la fiducia, la condivisione, la riconciliazione, la reciprocità, l’ubuntu.
Parlaci della pratica che nella tua esperienza personale ritieni sia stata la più potente.
Tra le modalità per me più potenti, che ho avuto modo di sperimentare più volte, c’è una combinazione che ho appreso dal pensiero dell’Umanesimo Universalista e che è indicata anche nello statuto del Tavolo per la Nonviolenza del Municipio 3 : un approccio nonviolento “coniuga la coerenza interna del pensare, sentire e agire nella stessa direzione a un modo di relazionarsi basato sulla antica regola di condotta di base: “Tratta gli altri come vorresti essere trattatə”.
Questo approccio che include l’aspetto personale e sociale mette in fila le caratteristiche per un tentativo di superare la sofferenza propria e degli altri, obiettivo cruciale della nonviolenza, come abbiamo visto. L’attitudine interiore che ci permette di superare quella violenza interna è posta in relazione stretta con l’azione esterna, che non è una negazione ma un fare, quella “regola d’oro” che ha accomunato momenti storici e molte religioni. Questa modalità ci permette di unire indissolubilmente la vita interiore e quella esteriore, l’aspetto individuale e quello sociale, sia interpersonale che collettivo, valorizza le differenze e sottolinea l’interdipendenza degli umani. Ci conduce a muoverci verso l’altrə e allo stesso tempo ci radica in noi stessə, portando alla luce quella profondità che accomuna tutti gli esseri umani, nei quali possiamo riconoscerci e che possiamo riconoscere come noi stessə. Un antidoto importante che ci riporta alla memoria che le più grandi violenze sono avvenute perché l’altro essere umano è stato “cosificato” come non umano e totalmente estraneo a se stessə.
Per finire tra i macro-strumenti della nonviolenza c’è l’Educazione e quindi la Scuola, perché la cultura di un popolo si tramanda proprio attraverso l’educazione, questo merita un capitolo a parte. La mia azione nonviolenta sociale in questi ultimi anni si muove proprio in questa direzione e ho toccato con mano quanto è articolato e per nulla lineare questo cammino.
Torniamo agli aspetti più “teorici”, ai filosofi della nonviolenza e ai tanti pensatori che se ne sono occupati. Il suo padre nobile è sicuramente Gandhi. Tutti abbiamo visto i film che raccontano la storia di come fu vincente il suo movimento per l’indipendenza dell’India! Il suo pensiero è un riferimento mondiale che ebbe seguito in altri Paesi e altri contesti.
Certamente Gandhi è il più conosciuto riferimento per la nonviolenza per l’ampiezza e la risonanza che ebbero le sue azioni; è importante però sottolineare che molte figure storiche e molte correnti di pensiero hanno operato alla ricerca della pace, del superamento della sofferenza e proposto soluzioni nonviolente per contrastare la violenza della propria epoca. Hanno parlato di etica, di giustizia sociale, di amore per il prossimo, di cooperazione, di diritti umani, del valore dell’essere umano, della comunità universale, di antidiscriminazione, di felicità interna e di evoluzione umana.
Per esempio non si possono non includere i riferimenti delle grandi religioni: Buddha, Mahavira, Zoroastro, Gesù, Mansur Al Hallaj. Si potrebbe anche ricordare il faraone Amenhotep IV (Akenathon) che nel XIV secolo a.C. condusse una profonda rivoluzione, instaurò una religione che professava il libero culto, sostenne un periodo pacifico e avviò trasformazioni politiche che miglioravano le condizioni socioeconomiche degli egizi. Divenne infatti celebre con l’appellativo di “re eretico”…
Stai andando decisamente molto lontano nel tempo!
Ci piace che si comprenda il legame con il passato a cui ciascuno appartiene. Lo stesso Gandhi affondava le radici nella sua tradizione Jainista e faceva riferimento a Lev Tolstoj come suo maestro. A Gandhi e alle tradizioni nonviolente hanno poi fatto riferimento moltə studiosə e attivistə contemporanei.
Il Novecento è stato ricco di persone che si sono distinte sia per il pensiero sia per l’attivismo nell’ambito della promozione della nonviolenza in tutto il mondo. Si pensi a Martin Luther King o Mandela per citare i più conosciuti, ma anche Gene Sharp in America, Johan Galtung in Norvegia, Mario Rodgrigues Cobos in Argentina, Aung San Suu Kyi in Birmania, Vandana Shiva in India, Rigoberta Menchù in Guatemala.
E in Italia Aldo Capitini, Lanza del Vasto, Ernesto Balducci, Danilo Dolci, ma anche Maria Montessori, poco conosciuta da questo punto di vista, e in tempi più recenti Alexander Langer. Vicinissime a noi, direi decisamente Greta Thunberg e Malala Yousafzai. Queste persone hanno ispirato moltə giovani e meno giovani creando movimenti e reti di gruppi grandi e piccoli.
Per far conoscere questi personaggi con una piccola equipe abbiamo redatto alcune schede semplici che riassumono le caratteristiche che abbiamo ritenuto più importanti. Un modo per ispirare i/le giovani nelle scuole. Si possono trovare nel laboratorio Behuman. È un lavoro che piano piano arricchiremo sempre più. C’è bisogno di cultura della nonviolenza.
Soffermiamoci un momento su Capitini: aveva avviato i primi esperimenti di democrazia diretta (o diremmo oggi deliberativa) e di decentralizzazione del potere, che parlavano della libera partecipazione dei cittadini. Un tema, quello della partecipazione, molto attuale e a cui noi di z3 siamo particolarmente sensibili. Come è relazionato alla nonviolenza?
Capitini muoveva diverse critiche alla “democrazia”, non amava questo termine, perché la democrazia dà il potere alla maggioranza, quindi solo ad alcuni. Amava invece parlare di omnicrazia: il potere di tutti, che si esercita in forme dirette e cercando consenso. Sosteneva l’esercizio del potere dal basso, come “unico mezzo per superare il fossato che divide la politica dalla maggioranza degli italiani”. Però affidava anche al potere un concetto negativo, come se fosse causa della violenza. Potremmo invece dire che partecipare alle decisioni, trovare accordi condivisi significhi avere la possibilità, quindi il potere, di decidere insieme di avanzare nella direzione che sia soddisfacente a livello individuale e collettivo.
Se la nonviolenza guarda all’evoluzione dell’umanità, al superamento della sofferenza individuale e collettiva, la partecipazione attiva va in questa stessa direzione: le giovani generazioni ne sono una forte dimostrazione.
Ho paura di non capire: a proposito delle giovani generazioni si sente molto parlare di individualismo, di disinteresse per la cosa pubblica, si teme il loro astensionismo… A me appare difficile capire quale è il rapporto dei giovani con la partecipazione.
Ragazzi e ragazze lamentano continuamente la non possibilità di partecipare alle decisioni, sentono di non avere alcuna voce in capitolo nelle scelte che riguardano la loro vita. Pat Patfoort, antropologa belga che ha classificato i meccanismi della violenza, direbbe che si sentono sempre in una posizione “minore”, quindi in una condizione di violenza e prevaricazione e le reazioni a questo sono le più diverse, a vari livelli. Un’interessante evidenza del rapporto O.M.S. (già nel 2006), mette in risalto come invece iniziative che hanno dato la possibilità ai giovani di contribuire al cambiamento della realtà sociale hanno prodotto effetti sul senso di auto consapevolezza e di auto efficacia, hanno migliorato il benessere mentale e i risultati scolastici e diminuito i tassi di abbandono scolastico, delinquenza e uso di sostanze.
Potenza della partecipazione, di sentirsi parte, di prendere parte, come in un enorme banchetto a cui ci si siede per mangiare, ma che si è anche contribuito ad arricchire. Cerchiamo spesso false soluzioni a problemi che hanno già una risposta, solo perché conserviamo quella tradizione di cui parlavamo all’inizio: autoritaria, prevaricante, punitiva…
Che cosa significa oggi in Italia essere nonviolenti?
Non potrei fare una differenza tra Italia e resto del mondo… Come già anticipato essere nonviolentə è una scelta, un approccio alla vita quotidiana e uno sguardo al futuro, che comprende l’umanità intera e non trascura l’ambiente circostante, che trascende il luogo in cui si vive e forse anche il tempo…
Patrizia Sollini