Proponiamo alcuni stralci significativi dell’intervista alle CLAP di MicroMega, in particolare sulla presunta dicotomia tra l’introduzione legale del salario minimo e la misura di sostegno alla povertà introdotta con il reddito di cittadinanza.
Le CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario hanno posto l’accento sulla questione, giacché – con l’apertura della campagna elettorale – si sono intensificati, senza soluzione di continuità, gli assalti a questi due istituti di tutela sociale. Non è un caso che da tempo siano diventati – ancora prima dell’apertura della competizione per la conquista dello spazio di rappresentanza istituzionale – oggetto di scontro frontale, con «una violenza verbale senza pari nei confronti dei poveri, dei disoccupati e del lavoro sotto-pagato, da parte dei tanti leader che affollano il centro e dalla destra sovranista». Ma, aggiungiamo noi, non mancano le ambiguità e i distinguo anche dal fronte sindacale confederale, schierato – con qualche eccezione – a sostegno del cd. “centrosinistra”.
Sostanzialmente le CLAP non ravvisano alcuna incompatibilità RdC e Salario minimo, «anzi i due strumenti sono complementari. Uno è una misura di welfare di sostegno alla povertà, che è stata decisiva nei due anni di pandemia. L’altra è una norma che se applicata porterebbe dei benefici notevoli ai salari bassi. Sono due norme necessarie e complementari. Da questo punto di vista l’anomalia è l’Italia: si tratta di provvedimenti già adottati da quasi tutti i Paesi europei. E da nessuna parte sono stati rilevati problemi al mercato del lavoro».
[…] Partiamo da una premessa: sondaggi indipendenti mostrano come più dell’80% degli italiani riconosca la necessità di un salario minimo. Si tratta, allora, di una misura che ha un consenso enorme nel Paese. Perché non si approva in fretta? Da questo punto di vista ci sembra che il dibattito sia scadente e che sconti la difesa di posizioni storiche da parte delle organizzazioni sociali. Ci sono molti attori che giocano partite diverse.
I sindacati confederali, più di ogni altra cosa, ci sembrano interessati soprattutto a difendere il monopolio della contrattazione collettiva, con annessa modifica della legge sulla rappresentanza anche per mettere fuori gioco i sindacati indipendenti. Sono sostanzialmente ostili al salario minimo legale e si limitano a proporre l’estensione del valore legale della contrattazione. Su cui, sia chiaro, non siamo contrari. A patto che questo sistema rappresenti solo un aspetto aggiuntivo al salario minimo legale, un’ulteriore garanzia della difesa dei livelli salariali.
Nel contesto italiano, con il peso eccessivo degli occupati nei settori a basso valore aggiunto, il paradosso è stato che un sistema salariale fondato solo sull’autonomia della contrattazione collettiva, in fin dei conti, ha contribuito ad indebolire il sindacato. Lo ha costretto, proprio nei settori più poveri e meno innovativi, a contrattare all’interno dei vincoli stringenti delle risicate compatibilità economiche di settore. Urge una norma salariale valida per tutte le lavoratrici e i lavoratori, anche per favorire un processo di trasformazione della struttura economica e occupazionale.
Dalla parte opposta Confindustria vuole continuare a godere della trentennale politica di bassi salari, su cui si è fondata la loro iniziativa economica, composta soprattutto da export manifatturiero a basso valore aggiunto e da servizi elementari.
Per concludere, il Governo al momento non ha presentato una proposta di legge sul salario, probabilmente in una prima fase della crisi hanno pensato di risolvere la questione a colpi di bonus. A distanza di tempo ci pare una strategia nettamente insufficiente.
[…] La questione è che in Italia lo sfruttamento sul lavoro è una caratteristica cronica del sistema. Pertanto, una misura di contrasto alla povertà di 500 euro al mese fa paura perché viene vista come un’indebita concorrenza da parte dello Stato. Non servono le statistiche dell’Inps a dimostrare che gran parte dei percettori del reddito sono indisponibili al lavoro, il punto è un altro. I datori di lavoro hanno il timore che stipendi molto bassi (senza contare il lavoro gratuito) possano essere rifiutati perché troppo vicini alla soglia del reddito di cittadinanza. A quel punto è meglio non lavorare. La soluzione allora è semplice, bisogna alzare i salari e migliorare le condizioni di lavoro. I datori di lavoro sono disponibili a farlo?
Per chiudere il cerchio sulla complementarietà imprescindibile degli istituti di tutela in questione, Maurizio Franco, di Micromega, ha chiesto specificatamente agli esponenti della Camera del Lavoro Autonomo e Precario, in merito al RdC, quali modifiche dovrebbero porsi in essere per implementare l’attuale misura di sostegno al reddito
[…] Ci pare che finora la misura di contrasto alla povertà abbia prodotto degli effetti redistributivi non trascurabili. Se negli anni scorsi non ci fosse stata, oggi affronteremmo una catastrofe sociale. Tuttavia, ci sono diverse storture che sono state segnalate anche dalla Commissione di valutazione sul Reddito di cittadinanza.
Per esempio, il requisito di 10 anni di residenza per gli stranieri è una chiara discriminazione. Un altro elemento controverso sono le soglie di Isee che in molte aree del Paese escludono una buona parte dei poveri.
Il problema è che il Reddito di cittadinanza è stato concepito come una misura selettiva e fortemente familista, segnata da una logica patriarcale. Inoltre l’erogazione è subordinata a un percorso di inserimento nel mercato del lavoro. E la legge prevede anche un regime sanzionatorio fino all’esclusione per coloro che rifiutano due lavori “congrui”.
Dal nostro punto di vista il RdC deve essere solo una misura redistributiva di contrasto alla povertà, superando ogni riferimento alle condizionalità e allargando notevolmente la platea dei beneficiari. Le politiche attive devono andare su un binario separato e passare per un investimento notevole in risorse strumentali, organizzative e professionali nei centri per l’impiego e nelle attività di orientamento e riqualificazione.
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