Aprendo Google Maps nella modalità satellite si può osservare il Cile dall’alto. Il nord si mostra desertico, chiaro e sabbioso, mentre scendendo dalla Regione Metropolitana di Santiago la superficie verde aumenta fino a culminare nel centro, nelle Regioni Maule, Ñuble, Bio Bio, Araucania, Los Rios, fino ad arrivare alla zona australe. Se potessimo confrontare questa visione dall’alto del paese con la stessa immagine dell’Argentina o del Paraguay, il panorama risulterebbe nettamente diverso. In Cile soprattutto non saltano immediatamente all’occhio le grandi estensioni agricole presenti invece nel Chaco, squadrate e ordinate in rettangoli e quadrati chiari, emblema della deforestazione mondiale. Nel centro, l’agricoltura c’è ma il verde prevale, in alcune zone particolarmente fitto e scuro. La mappa però si può zoommare, ci si può virtualmente avvicinare a questo verde per coglierne i dettagli. Così da vicino, la vegetazione si rivela più ordinata del previsto. Rettangoli scuri e omogenei ricoprono grandi porzioni di territorio, intervallate da zone più disordinate e altre vuote e desertiche. Questa stessa suddivisione è identificata anche dai bollettini annuali dell’INFOR (Instituto Forestal), ente che dal 1965 registra le estensioni forestali del paese. Nel bollettino 2021 per esempio si distingue tra “Area of native forest” e “Area of planted forest”. È in questi due aggettivi, nativo e piantato, che il paesaggio satellitare del Cile trova lettura e significato.
Eucalyptus globulus e Pinus radiata
Attualmente il pino statunitense e l’eucalipto australiano sono le due specie esotiche più presenti in Cile per scopi commerciali, ma la storia del legno nel Paese ha vissuto un lungo percorso con svolte importanti. Le prime piantagioni di pino furono introdotte volutamente dallo stato per arrestare l’erosione e la desertificazione che l’agricoltura intensiva stava causando nel centro, ma ben presto da sistema di rigenerazione ecosistemica si sono convertite in industria e risorsa per l’export. Anche grazie al lavoro di studio e sperimentazione dell’INFOR, il pino e l’eucalipto diventano centro di un modello produttivo che oggi rende il Cile uno dei maggiori esportatori di legname e derivati al mondo, seguendo la scia di Cina e Stati Uniti: solo nell’aprile 2022 si registrano esportazioni per US$ 557 milioni di dollari. Tuttavia, il monopolio di questo settore è oggi concentrato nelle mani di 15 imprese principali, di cui solo tre ricevono il 79,4 % dei guadagni del settore: Forestal Arauco (gruppo Angelini), Masisa e CMPC Compagnia manifatturiera di carta e cartone (gruppo Matte). Secondo il professore e ingegnere forestale Carlos Zamorano, «prima del 1973 era un altro Cile»: la privatizzazione infatti inizia con il regime Pinochet. Con il Decreto Legge 701 del 1974 Fomento Plantaciones lo Stato inizia a erogare sussidi alle imprese private per il 75%, scegliendo ufficialmente la via della piantagione intensiva di specie esotiche come modello economico nazionale. Oggi, Bio Bio, Araucania e Maule sono le regioni dove le piantagioni sono maggiormente presenti. Solo nella Regione del Bio Bio, secondo dati ufficiali CONAF 2021 le mono-coltivazioni forestali occupano più di 875 mila ettari, contro i 597 mila di bosco nativo ubicati maggiormente nella zona montana dove la produzione è più difficile per questioni logistiche.
Una legislazione fatta su misura
Il Decreto Ley 701 è considerato da Zamorano e da molti altri scienziati forestali e attivisti, «una legislacion echa a la medida», fatta su misura per fomentare un modello economico estrattivista, se con “estrattivismo” includiamo tutte le attività che mirano a estrarre valore economico da singole risorse, luoghi, corpi e lavoro umano e non. Inoltre, le imprese riescono a trovare altre strategie per ottenere sussidi statali: entrando dalla porta sul retro. Un esempio in questo senso riguarda gli Accordi di Parigi e gli impegni del Cile per la mitigazione dei cambiamenti climatici. Zamorano ci spiega come nei suoi NDC (Nationally Determined Contributions), cioè gli obiettivi nazionali presentati ogni anno alle conferenze ONU sulla crisi ecoclimatica (COP), il Cile si sia impegnato a piantare (o meglio, forestare) 200.000 ettari di foreste, lasciando tuttavia che le stesse imprese del legname partecipino all’obiettivo. Infatti, di questi 200.000 solo 70.000 sono riservati a specie native, mentre 130.000 alle monocolture forestali. Inoltre, solo 100.000 sono destinati a copertura permanente, gli altri 100.000 invece si potranno tagliare e ripiantare: per Zamorano ennesima prova della «lobby forestale». Negli ultimi anni, il tema del tree planting e della riforestazione ha acquisito molto spazio nella discussione sulle strategie di mitigazione nei cambiamenti climatici e di compensazione delle emissioni di gas climalteranti. Purtroppo però, il coinvolgimento delle imprese del legname negli obiettivi nazionali del Cile è solo una delle prove di quanto questo tema si presti troppo facilmente a greenwashing e manipolazioni di vario tipo. Per Zamorano, è assurdo e ipocrita che si stiano dedicando tanti soldi alla riforestazione, mentre i tassi di deforestazione mondiale aumentano senza sosta: «dovremmo preoccuparci di più di come evitare la deforestazione e la degradazione del suolo invece di piantare. Inoltre la politica più appropriata sarebbe quella di conservare il bosco nativo che già c’è e restaurare gli ecosistemi».
Le prove del greenwashing
Basta piantare alberi per rallentare la corsa della crisi ecoclimatica? Fin dai primi anni di scuola abbiamo imparato un semplice paradigma: l’essere umano ha bisogno di ossigeno per vivere e produce CO2 di scarto, gli alberi invece assorbono CO2 e rilasciano l’ossigeno di cui abbiamo bisogno. Un paradigma che tuttavia risulta fin troppo semplice e riduttivo. Nel caso degli obiettivi nazionali di mitigazione del Cile per esempio, uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista scientifica Environmental Science & Policy come risultato della collaborazione tra diverse università cilene, dimostra come il settore forestale si stia trasformando «da un metodo di stoccaggio di carbonio a una fonte netta di carbonio». Questo avviene perché la capacità di assorbimento della CO2 di pini ed eucalipti è annullata se si considerano le emissioni date dal taglio e dalla trasformazione della materia prima nell’industria e dai mega-incendi che questo tipo di coltivazioni fomentano. Molti fattori raccolti anche nel reportage di ResumenTV Llamas del despojo, tra cui la regolarità e densità della piantagione, l’aridità del suolo e altre caratteristiche tipiche dell’eucalipto e del pino (come l’alta infiammabilità della resina), permettono rapide ed incontrollabili escalation nella propagazione degli incendi. Come riportato nello studio pubblicato su Environmental Science & Policy, solo nel 2017 (poco prima della ratifica degli Accordi di Parigi in Cile) una serie di intensi incendi hanno colpito 570.000 ettari di territorio, di cui due terzi erano di piantagioni forestali. Le emissioni rilasciate in quei 20 giorni di fuoco rappresentano l’equivalente di tutta la CO2 che il Cile si è impegnato a sequestrare nei prossimi anni.
L’omogeneità è nefasta
Anche se può sembrare paradossale, non tutti gli alberi formano ecosistemi. Come spiega l’ecologa Fernanda Salinas in un’intervista per Cile Vision ad ottobre 2021, «un bosco è una comunità biologica in cui predominano gli alberi, ma è composta da molte altre specie come uccelli, anfibi, rettili, mammiferi, insetti, vita nel suolo e sotto di esso, microrganismi, funghi, piante, ecc. Le foreste, in quanto comunità biologica, hanno circa 390 milioni di anni. Le piantagioni, invece, non sono foreste, poiché non hanno questa storia evolutiva e non generano un’interazione tra le specie». In questo senso, anche la definizione di “planted forest” proposta dall’INFOR si rivela inadatta e più correttamente sostituibile con quella di “coltivazione forestale”. Infatti, continua Salinas, «le piantagioni forestali sono un’attività produttiva» e come tale sono da valutare nel loro impatto come parte carburante di un preciso e ampio sistema industriale e produttivo che va ben oltre la loro breve vita.
I pini e gli eucalipti importati in Cile non realizzano mai davvero il ciclo di vita tipico del bosco. Piantati in file ordinate da macchine automatizzate crescono rapidamente fomentati da prodotti chimici e pesticidi, consumano grandi quantità di acqua per poi essere tagliati e trasportati per chilometri, senza che la loro decomposizione possa restituire al suolo vivo i nutrienti assorbiti per crescere. Il ciclo rimane così interrotto, il suolo si degrada, si impoverisce e si acidifica, le falde acquifere si prosciugano con effetti che coinvolgono ecosistemi e persone vicine e lontane.
Secondo C., attivista Mapuche per la difesa del Rio Cholchol, nelle comunità che abitano la Cordillera di Nahuelbuta tra Bio Bio e Araucania si sta sempre più naturalizzando l’arrivo di camion che trasportano acqua potabile per compensarne l’assenza: «è quasi un regalo che ti portino acqua a casa tua e si ringrazia, perché c’è una generazione che è già nata senza acqua, loro non sanno cosa significa attingere acqua dalla sorgente». “Nahuelbuta, un lugar cerca del cielo” (un luogo vicino al cielo), “Aquì creamos empleo” (qui creiamo lavoro) si legge nei cartelli ministeriali installati lungo le strade della Cordillera della costa, una delle zone dove storicamente le imprese del legname hanno avuto più successo. Ma Nahuelbuta è anche una delle regioni più povere del paese, una di quelle dove gli incendi forestali sono più frequenti e inarrestabili, dove l’emergenza nazionale per la “sequìa” (siccità) ha privato dell’acqua potabile interi comuni e dove il conflitto con le comunità Mapuche è più accentuato e la militarizzazione è periodicamente rinnovata. Secondo M., che come C. partecipa alle mobilitazioni per il Rio Cholchol, «il popolo Mapuche è povero da quando lo Stato si è fatto presente qui, e questa povertà è stata acuita dopo la dittatura con il decreto 701 per la piantagione di boschi. L’industria forestale guadagna sempre più soldi ma non c’è un riflesso qui nella zona e per i Mapuche».
Come i nutrienti che non tornano alla terra, la ricchezza promessa dagli investimenti statali nelle piantagioni forestali non rimane nelle mani di chi abita il territorio. Nella Cordillera della costa, come nelle altre zone dove le grandi imprese del legname lavorano da più tempo, non si può non parlare di razzismo ambientale. È in questi luoghi che il costo ambientale e sociale, l’effetto collaterale della crescita economica del paese e di poche imprese è scaricato sulle spalle degli abitanti, umani e non.
«In generale l’omogeneità è nefasta» riassume il professor Zamorano. «E’ pericolosa nella società come negli ecosistemi e mai si dovrebbe incoraggiare». Percorrendo i quasi 200 chilometri che uniscono la Cordillera delle Ande alla Cordillera di Nahuelbuta sulla costa e attraversando così orizzontalmente la regione dell’Araucania, la strada è affiancata da file interminabili di alberi ordinati. Li si può seguire in tutte le fasi della loro breve esistenza: i piccoli eucalipti chiari appena piantati, l’affollamento delle piante più grandi che non permettono alla luce di nutrire il sottobosco, le colline brulle e desertiche ormai prosciugate. Tuttavia, osservando bene, la regolarità della piantagione è interrotta da striscioni, cartelli e bandiere che segnalano terreni in recuperaciòn (recupero, rivendicazione) da comunità Mapuche. In un contesto di storico e attuale estrattivismo forestale, recuperare territori e riportarli alla ricchezza della biodiversità umana e non significa per i Mapuche recuperare anche le loro tradizioni e la coesione del loro popolo, aprendo alla possibilità di un nuovo modello forestale basato non sulla tossica omogeneità, ma sulla gestione comunitaria di una foresta viva.