Nel suo ormai classico “Lo scontro tra civiltà”, Samuel Huntington prevedeva nel periodo post guerra fredda una serie di conflitti potenzialmente esplosivi basati non più sulla contrapposizione tra ideologie, quanto piuttosto sulla contrapposizione tra civiltà; il fattore identitario, cruciale per manipolare l’opinione pubblica, si sarebbe basato sulla cultura, la religione e in pratica su tutti gli aspetti che segnano e caratterizzano profondamente i popoli.
L’esempio odierno dell’Ucraina, terra di frattura tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa, evidenzia in modo lampante come il conflitto sui valori, i diritti e le tradizioni sia lo scudo dietro cui nascondere l’esistenza di interessi geopolitici contrastanti.
Non è neanche un caso che anche armeni e azeri, da decenni in contrapposizione per il territorio del Nagorno Karabakh, siano gli uni cristiani e gli altri musulmani. La civiltà, in sintesi, è quell’ancora di salvezza a cui oggi si aggrappa la maggior parte della popolazione mondiale per opporsi al senso di incertezza e paura seguito al crollo delle ideologie e alle crisi economica e ambientale.
Le origini delle tensioni nel territorio risalgono al crollo dell’Unione Sovietica e alla decisione della maggioranza cristiana di origine armena abitante nella regione di creare uno Stato autonomo, il Nagorno Karabakh appunto, staccandosi dall’ormai indipendente – e musulmano – Azerbaigian.
Ho conosciuto Narek in occasione di un progetto interculturale in Moldavia, tre anni fa; appena diciottenne era in procinto di partire per il servizio militare, che in Armenia è obbligatorio e dura due anni. Ci siamo salutati con la speranza che non avrebbe dovuto partecipare alla guerra che all’epoca sembrava una possibilità concreta ma non troppo.
Il 27 settembre del 2020 l’Azerbaigian ha improvvisamente ripreso le ostilità al confine: il conflitto è durato circa un mese e mezzo.
Un casuale permanenza di due giorni a Yerevan mi ha permesso di rivedere Narek e di regalargli una bottiglia del famoso limoncello che suo nonno voleva tanto assaggiare. L’occasione è stata propizia affinché mi parlasse della sua esperienza nell’esercito: ho raccolto una testimonianza spontanea e significativa, a mio avviso importante per comprendere dinamiche spesso trascurate dalla stampa mainstream.
Tra un sorso di birra armena e l’assaggio di dolma e lahmacun, Narek ha risposto alle mie domande e al termine della conversazione, sfruttando la lingua locale e battendomi sul tempo, mi ha pagato la cena, neanche troppo economica per lo standard di vita locale, dandomi un esempio dell’ospitalità tipica del suo popolo.
Tre anni fa ci siamo salutati poco prima del tuo servizio militare: non eri certo contento di partire, ma mi sembravi abbastanza rilassato. Perché?
Nel mio paese, a causa della questione del Nagorno Karabakh, sin da piccoli sappiamo che un giorno ci aspetterà l’esercito, in poche parole siamo abituati a tutto questo. La questione era sapere quanto lentamente sarebbero passati questi due anni.
Cosa pensi riguardo alle armi?
Ovviamente sono contrario all’uso delle armi perfino per la caccia, ma nel nostro caso non abbiamo scelta in quanto non esiste l’opzione del servizio civile. Fortunatamente non ho dovuto sparare a nessuno per autodifesa nel corso del conflitto.
Ricordo che parlammo dell’eventualità della guerra con l’Azerbaigian e della speranza che non si sarebbe verificata. Come hai appreso la notizia e cosa hai provato?
Qualche giorno prima dell’inizio delle ostilità i nostri superiori dell’esercito ci hanno anticipato la possibilità che gli azeri potessero iniziare a sparare verso le nostre postazioni, ma non ritenevano il tutto certo e soprattutto imminente.
Una notte mi sono svegliato a causa del rumore che i droni azeri facevano sulle nostre teste; qualche minuto dopo abbiamo visto una serie di luci intermittenti sul fronte azero e a seguire fumo accompagnato dal rumore dei colpi sulla terra.
Cosa hai provato in quel momento?
Non ho provato paura… forse non c’è stato tempo per questo. Abbiamo iniziato a saltellare, a ridere nervosamente e a chiederci ad alta voce a vicenda: “Che diavolo sta succedendo”?
In quei giorni hai mai rischiato di perdere la vita?
Sì, proprio in quei momenti i colpi sono arrivati a pochi metri da me. Per il periodo successivo siamo spesso stati nei bunker sotterranei e la mia attività è stata principalmente quella di coordinare e aiutare i soldati che tornavano indietro o perché feriti o per il cambio con chi li sostituiva in prima linea. Li ho aiutati in tutti i modi e in alcuni casi gli ho dato i miei vestiti perché i loro erano inutilizzabili.
Sono tornati indietro tutti sani e salvi?
Nel mio gruppo fortunatamente sì, ma purtroppo ho perso un amico d’infanzia nato nel mio stesso villaggio.
Se adesso, a fine servizio militare, pensi agli azeri che cosa provi?
Per me sono gli stessi di prima… possono essere miei amici. Sono sempre i governanti che decidono delle sorti dei governati. Chiaramente se si tratta di fanatici e nazionalisti la situazione è diversa, ma questo vale per tutti i Paesi del mondo.
Dopo questa esperienza di guerra come è cambiato il tuo modo di pensare?
Adesso non guardo più i telegiornali e mi interesso solo a me e ai miei amici. Ho un lavoro che mi consente di vivere dignitosamente a Yerevan e va bene così.