Il primo libro su Rita Atria fu il suo diario, curato insieme alle sue lettere e ad altri scritti da Sandra Rizza per le edizioni La Luna nel 1993. Si intitolava Una ragazza contro la mafia e il sottotitolo era: Rita Atria denunciò le cosche e si uccise dopo la strage Borsellino. Proprio quel “si uccise” voi oggi rimettete in questione, in un nuovo libro che è già andato esaurito ed ora è in ristampa, per la casa editrice Marotta&Cafiero di Scampia. Il vostro titolo è Io sono Rita e il sottotitolo Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio. È il frutto di un intenso lavoro di collaborazione fra te, co-fondatrice dell’Associazione Antimafie Rita Atria, Giovanna Cucè, giornalista del TG1, e Graziella Proto, fondatrice e direttrice della rivista Le Siciliane/Casablanca. Perché scrivere un nuovo libro su questa vicenda?
Come spiego nella Genesi, c’era l’esigenza di raccontare una parte della storia che non era mai stata raccontata, di tentare una ricostruzione mai fatta sin qui, se non per via ipotetica, esigenza nata dalla lettura dei fascicoli che abbiamo acquisito, insistendo con tenacia per la desecretazione dei documenti del Viminale, precedenti la morte di Rita. Ma il nostro lavoro di scavo ha riguardato anche i verbali di polizia e carabinieri di Roma, redatti all’indomani della morte di Rita (26 luglio 1992), gli atti della Procura e del Tribunale di Marsala sul processo Accardo+30 del 1993 (che nella faida tra cosche rivali, Ingoglia e Accardo, comprendeva anche i due omicidi di Vito e Nicola Atria, rispettivamente padre e fratello di Rita), gli atti del Tribunale di Roma, i verbali del Servizio Centrale di Protezione, gli atti della Procura di Sciacca e della scuola alberghiera di Erice (dove Rita aveva sostenuto gli esami di idoneità al terzo anno). Abbiamo voluto dare la parola alle carte. Ai fatti.
E da questo lavoro di scavo è emerso il dubbio sul suicidio…
Finora circolava la versione che Rita si era buttata a palombaro, salendo in piedi sul davanzale; in realtà, durante una manifestazione in Viale Amalia (il suo ultimo indirizzo), mi si avvicinò una donna e mi disse: “Ma veramente la tapparella era quasi chiusa!”. Già a quel tempo avevamo cercato di acquisire le carte, ma ci erano state rifiutate; ora abbiamo avuto più fortuna… Anche dal fascicolo di Roma risulta che la tapparella era quasi chiusa! Così come dal fascicolo del Viminale non risultano difficoltà di inserimento a scuola (un liceo cittadino) né problemi di salute o di sofferenza psicologica. Inoltre ci sono alcune considerazioni degli avvocati sui referti scientifici: le analisi del sangue sono state fatte solo due mesi dopo la morte, quando il tasso alcolemico avrebbe avuto tutto il tempo di ridursi così da risultare insignificante. Nel sopralluogo in casa non sono state ritrovate bottiglie, solo una bottiglia di Martini in uno scaffale del ripostiglio in alto, ma un bicchiere rotto e un orologio da uomo; nessuna impronta o traccia biologica, come se tutto fosse stato ripulito; e inoltre, anche qui come in via D’Amelio, c’è il mistero di un’agenda telefonica, prelevata da un ispettore di polizia non identificato e mai più ritrovata… Infine Rita era minore, avrebbe dovuto avere un tutore, ma l’Alto Commissario cui era stata affidata dal marzo ’92 (all’inizio della sua collaborazione con la giustizia) si era completamente disinteressato di lei: l’avevano seguita come volontari i ragazzi di Paolo Borsellino e gli ufficiali di polizia giudiziaria di Marsala, anche quando la competenza era delle istituzioni romane.
Voi ricostruite anche il contesto della mafia metamorfica di quegli anni, che si trasforma da mafia agraria a mafia impresa e quindi finanziaria, con la globalizzazione dei traffici di droga e armi, e, sullo sfondo, la latitanza di Matteo Messina Denaro.
Sì, il processo di Marsala Accardo+30 viene sottovalutato: tutti pensano che sia un conflitto tra una mafia di pecorai e quelli che volevano vendere la droga. Noi dimostriamo che il padre di Rita, don Vito, la droga la custodiva e la spacciava e custodiva anche armi… del resto, o si adeguava o si adeguava. E in quel contesto si muoveva anche un certo Matteo Messina Denaro: non dimentichiamo che le moto usate dagli assassini di Vito Atria si sospettava appartenessero a lui e forse anche al fratello, che possedevano modelli simili. Sulla faida Ingoglia-Accardo ci sono migliaia e migliaia di pagine che dimostrano come non si tratti di quattro pecorai nè di un contesto arcaico: c’erano interessi molto grossi che arrivavano anche in Inghilterra e in Sud America. D’altra parte, accanto alla mafia c’era anche l’antimafia. A Partanna c’era il Centro fondato da Danilo Dolci, che nel 1969 organizzò la prima marcia per la pace da Partanna a Castellammare, cui partecipò anche Peppino Impastato; c’erano le donne (che avrebbero sorretto la bara di Rita al funerale); c’erano lotte per la legalità.
Anche il rapporto con la sorella maggiore Anna Maria e la madre Giovanna Cannova viene rivisitato: la madre non è più vista come una nemica, obbediente alla legge dell’omertà e fedele all’appartenenza mafiosa, ma come una donna che teme per la sorte della figlia, coinvolta in vicende più grandi di lei.
La madre la legge dell’omertà la rispetta sulle cose che conosce del marito; sulle frequentazioni ma poi è una donna che usa molto lo strumento della denuncia ai carabinieri. Matura una rabbia molto forte nei confronti di Piera Aiello, moglie del figlio Nicola, che per prima inizia a collaborare con la giustizia, dopo l’uccisione del marito, e che lei ritiene responsabile del coinvolgimento di Rita. In realtà, è una donna diversa da come la dipingono: benché nata nel ’39, prende la patente già nel 1973, guida l’auto, accompagna Rita dal sindaco a rivendicare un autobus per gli studenti che devono raggiungere Sciacca (ed è in questa occasione che la ragazza, al sindaco democristiano Culicchia che voleva favorirla, in quanto sapeva chi fosse, risponde: “Io sono Rita e non la figlia di Don Vito”); voleva che la figlia Rita studiasse mentre Anna, cinque anni più grande di Rita, dopo la morte del marito era stata relegata al ruolo “di femmina di casa” mentre lei andava in giro a sbrigare faccende legate ai terreni, al pascolo, ecc… A causa dei disagi di collegamento tra Partanna e Sciacca, Giovanna Cannova, affitta per Rita una stanza a Sciacca e si lamenta che Piera, con le sue confidenze sul marito assente in famiglia, la distolga dallo studio. “Ma sta figlia me la devono fare studiare; è andata a Sciacca per studiare e non per occuparsi dei loro problemi”. Quando Rita inizia a testimoniare per convincere la figlia a tornare sui suoi passi millanta di essere capace di proteggerla, cosa impossibile, dato che già una volta avevano tentato di entrare in casa probabilmente per ucciderle. Ma Giovanna Cannova non aprì quella porta. Inizialmente autorizza la messa in protezione ma poi tenterà di dissuadere la ragazza dal collaborare con Borsellino anche con le minacce, per cui verrà disposto il suo allontanamento dalla figlia. Quando Rita muore, la madre e la sorella Anna, quest’ultima con il pretesto che era incinta, non vengono avvisate immediatamente. Parecchie volte la signora Cannova era stata ricoverata per depressione; il giorno della strage di via D’Amelio era degente in una casa di cura di Partanna, dove dovevano imboccarla perché rifiutava il cibo… Non sappiamo se quando restituirono il corpo fosse ancora in casa di cura. Anna invece partecipò al funerale. Di fatto, il luogo della sepoltura e la lapide sono decisi da Piera, che sceglie la tomba della famiglia di uno zio degli Atria, accanto al fratello Nicola, anziché quella di famiglia del suocero. La signora allora, recandosi al cimitero, spezzerà col martello la foto della figlia e mi spiegherà in seguito: “Io non ho fatto un gesto contro mia figlia, ma contro Piera Aiello; non è che mi avevano tolto la genitura!”. Per questo gesto, verrà condannata, ma con pena sospesa. Dal figlio Nicola, marito di Piera, aveva spesso subito percosse, con relative sue denunce ai carabinieri, eppure lo aveva aiutato nel momento del bisogno, comperandogli le pecore per dargli liquidità. Non voleva, però, che le sue figliole frequentassero il fratello, specie da quando gli aveva trovato una bustina di droga nel portafogli e aveva capito che spacciava. A suo modo, era una persona che credeva nello Stato: non racconta mai nulla in Procura di fatti di mafia, ma tempesta di richieste i carabinieri; in un suo diario si legge che sperava che il Presidente della Commissione Antimafia Lumia, le forze dell’ordine e agli avvocati, potessero aiutarla per riesumare il corpo di Rita e fare l’autopsia, “perché, secondo me, mia figlia me l’hanno buttata”. Certo le sue azioni e strategie comunicative sono mafiose e patriarcali, ma quello era l’ambiente in cui era stata educata. Ed è una donna che scrive tantissimo, con la sua quinta elementare intende raccontare “il romanzo della mia vita”. Le tre donne di casa Atria scrivono scrivono…
Cosa vi aspettate da questo nuovo libro-denuncia?
Abbiamo presentato un esposto come Associazione Rita Atria ed anche a nome di Anna Maria Rita Atria, sua sorella. Auspichiamo una riapertura del caso che dia risposte a domande certamente non prive di fondamento.
Per finire, posso chiederti di tratteggiare una breve storia della vostra associazione?
L’Associazione Antimafie Rita Atria nasce due anni dopo la morte di Rita. Io studiavo a Pisa e, dopo l’esperienza della Pantera, tornata a Milazzo, ho avvertito con altre e altri, al di là di ogni appartenenza politica, il bisogno di dare un senso allo striscione “Non li avete uccisi: le loro idee cammineranno sulle nostre gambe”. Abbiamo impiegato due anni perché volevamo studiare e capire. A Messina, provincia “babba” (sciocca), si diceva che la mafia non esistesse; invece moltissimi erano gli interessi, legati per esempio al porto turistico di Porto Rosa, alla presenza di latitanti in tutto il versante tirrenico e a quant’altro. Abbiamo incontrato Umberto Santino e Anna Puglisi del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, Emilia Midrio Bonsignore (vedova di Giovanni Bonsignore, funzionario regionale alla cooperazione ucciso dalla mafia nel 1990), Rita Borsellino, Franca Imbergamo, Antonino Caponnetto, che tutti ci hanno incoraggiato e supportato. Qualcuno ci ha criticato per aver fondato un’associazione in una provincia in cui secondo loro non esisteva la mafia e per intestato l’associazione ad una figlia e sorella di mafioso! Qualcun altro ci ha dato pochi mesi di vita… Siamo arrivati a 28 anni!
E fate molto altro…
Abbiamo contribuito, insieme a Piero Campagna ed al giornalista Antonio Mazzeo, a far riaprire il caso Graziella Campagna (una ragazza di 17 anni uccisa nel 1985 per aver ritrovato un “pizzino” nella tasca di una giacca, portata in lavanderia dal nipote del boss Gerlando Alberti). Abbiamo lavorato alla riapertura di due casi relativi alla strage di Ustica del 1980: il finto suicidio del maresciallo Alberto Dettori (che aveva seguito sul monitor del radar la traiettoria dell’aereo abbattuto e aveva telefonato al capitano Ciancarella, radiato e poi reintegrato) ed il presunto incidente aereo dell’ex ufficiale Alessandro Marcucci (che conosceva i nomi di chi poteva testimoniare che il Mig libico, presumibilmente responsabile dell’abbattimento dell’aereo civile italiano, era partito da Pratica di Mare). Siamo specializzati in suicidi e incidenti! Ma ci occupiamo anche di lotta al femminicidio, diritti Lgbt+, appoggiamo la campagna per la liberazione di Assange e contro il Muos di Niscemi. Abbiamo richiesto il blocco dei cantieri e denunciato la scorta, secondo noi illegittima, offerta dalla polizia alle forze armate statunitensi quando il cantiere del MUOS era sequestrato. Crediamo che la lotta alle mafie sia una lotta per i diritti e non debba guardare in faccia nessuno!