È dell’11 luglio scorso la notizia dell’ennesimo suicidio in carcere. Questa volta a San Vittore (nelle carceri italiane nel 2021 ci sono stati 57 suicidi, già arrivati a 21 al 23 aprile del 2022). Mentre il segretario generale della Federazione Nazionale Sicurezza – Cisl denuncia nuove aggressioni- consumate nell’indifferenza generale– nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria nelle carceri di Sollicciano e di Augusta, il Garante nazionale delle persone detenute lancia l’allarme sulle tante criticità che da tempo si riscontrano nell’ Istituto di Poggioreale e l’associazione Nessuno Tocchi Caino dopo le visite (anche al 41bis) nelle carceri sarde ha denunciato la carenza allarmante di direttori, di comandanti della polizia penitenziaria e di educatori, le condizioni sanitarie al limite del rispetto del diritto fondamentale alla salute e la presenza di un elevato numero di malati psichiatrici. Intanto, come registra Antigone nel suo XVIII rapporto, al 31 marzo 2022 erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 mamme dentro un istituto penitenziario: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/CartellastampaXVIIIRapporto.pdf Delle tante sofferenze non previste dalla legge che il carcere infligge sono da sempre piene le cronache. E anche in questa rovente estate 2022 immancabilmente arriveranno. Al contrario, si fa fatica a dibattere seriamente il tema del superamento delle carceri (“Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” di Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Luigi Manconi, Chiarelettere, 2022 e “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” di Cosima Bucoliero e Serena Uccello, Einaudi, 2022, solo per citare due degli ultimi brillanti contributi sul tema) e –nel frattempo– a considerare come città anche il carcere, lasciato quasi sempre con i suoi problemi e le sue clamorose ingiustizie alle sole sensibilità degli “addetti ai lavori” e delle associazioni che operano a sostegno e tutela dei detenuti.
Sono 168 i Comuni con istituti penitenziari per adulti, ma soltanto 53 di essi hanno istituito, per esempio, la figura del Garante comunale per le persone private della libertà, un’autorità di controllo della legalità nei luoghi di privazione della libertà, dotata di autonomia e indipendenza, cui la persona detenuta può rivolgersi per ottenere la tutela dei propri diritti. Il Garante comunale, preesistente anche rispetto allo stesso Garante nazionale, che ha iniziato la sua missione solo nel 2016 (e ai 16 Garanti regionali attualmente attivi), è una figura di promozione dei diritti, un anello di congiunzione tra il “dentro” e il “fuori”, in cui grande rilievo assumono i rapporti con gli enti locali, l’amministrazione penitenziaria, la magistratura, le forze di polizia, le forze politiche nazionali e locali, i sindacati, le associazioni di categoria, le Ong. Il Garante comunale ha funzioni di osservazione e di vigilanza, promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà e della umanizzazione della pena detentiva, anche in collaborazione con altri soggetti pubblici competenti in questo settore ed è l’intermediario tra le realtà di privazione della libertà – in particolare il carcere- e la città. Si tratta di una figura di garanzia che testimonia l’attenzione che la Città ha verso il mondo della privazione della libertà ed evidenzia la consapevolezza che le istituzioni cittadine hanno in materia di prevenzione di trattamenti inumani o degradanti, di assistenza sanitaria e di reinserimento sociale. Per approfondimenti: DIRITTI COMUNI – Il Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale: dall’analisi dell’esistente, alla proposta di un’identità uniforme e condivisa.
Di recente tra l’ANCI e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale è stato firmato un protocollo d’intesa per sviluppare una collaborazione che sostenga ed uniformi la figura dei Garanti comunali delle persone detenute e private della libertà personale, per consolidare la loro istituzione, fornire un luogo di confronto e approfondimento nazionale e condivisa in collaborazione con il Garante nazionale.
Il sistema di relazioni tra carcere e città non si può –ovviamente– ridurre all’attività, pur pregevole, del Garante comunale. “Aprire il carcere alla città” significa soprattutto saper incrementare le forme di esecuzione della pena che non richiedono la detenzione e significa riuscire a coinvolgere attivamente le popolazioni carcerarie nelle attività sociali urbane, dando vita- per esempio– a “strutture intermedie” di incontro tra il carcere e la città (pensiamo al teatro o ai laboratori del carcere aperti alla città, alle “cene galeotte”, agli orti urbani intorno al carcere dove lavorano persone detenute o in semilibertà), luoghi nei quali i cittadini liberi e i cittadini detenuti possono incontrarsi, anche per superare pregiudizi e paure. “Riportare il carcere in città” significa saper organizzare in città misure alternative alla detenzione e sanzioni di comunità (si pensi ai lavori di pubblica utilità), preparando, rassicurando e tutelando innanzitutto la comunità sociale (territoriale) rispetto alle misure penali che deve accogliere, gestire e integrare. “Il carcere è un pezzo di città”, così si intitolava una campagna promossa nel 2019 da Antigone che puntava ad includere anche i sindaci nell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, vale a dire tra quelle autorità cui la legge riconosce il diritto a visitare gli istituti di pena. Per l’Associazione, che invitò alcuni sindaci a visitare insieme le carceri per conoscere cosa avviene in quel loro pezzo di città, “quando carcere e territorio comunicano fra loro, quando esistono dei trasporti che non isolano gli istituti di pena ma che consentono a familiari e volontari di recarvisi facilmente, quando i cittadini si rendono conto che il carcere è un pezzo di città, quando sul territorio esistono servizi territoriali adeguati, aumentano le chances che la pena non sia solo un momento di esclusione”.
Ci sono esperienze consolidate in cui il carcere non è solo il luogo di espiazione della pena ma anche il luogo dove si riacquista dignità, soprattutto attraverso il lavoro che i detenuti possono svolgere in associazioni e cooperative sociali diventate in alcuni casi anche piccole imprese che sviluppano buone pratiche di economia carceraria (anche se sono ancora troppo pochi quelli che lavorano: a fronte di circa 60 mila detenuti solo 2000 di essi lavorano). Ma è ancora tanta la strada da percorrere e tante le azioni da intraprendere per far sì che i detenuti siano riconosciuti come cittadini. E questo dipenderà molto dalle nostre città e dalla loro propensione a rappresentare il luogo ove praticare il sistema rieducativo (invece che punitivo), ove si scardinano le logiche di esclusione e stigmatizzazione, si promuove il perdono, si accolgono i detenuti nello spazio urbano e si fa diventare la pena da scontare un momento in cui la persona non solo ha l’opportunità di partecipare a determinate attività, ma anche di acquisire competenze lavorative e professionali.