Ieri sera a Torino è stato presentato il libro di Francesca Svanera, evento organizzato da Non Una di Meno Torino
Un mio contatto mi segnala l’evento, in genere non vado alle presentazioni dei libri, ma la persona che me l’ha segnalato non l’avrebbe fatto se non fosse stato un evento significativo. Non leggo nulla al riguardo, mi annoto giorno ed ora, e vado, trafelato come sempre, a “scatola chiusa”.
L’autrice comincia a parlare, scopro così dalla sua voce l’argomento del libro. Bambini abusati sessualmente, stuprati, ma non solo: per soldi, per alimentare un mercato a propria volta abusante.
Non è una statistica, non è una velina della Polizia Postale, non è un trattato di psicologia o sociologia, è una persona in carne ed ossa che racconta il proprio vissuto, tutto cambia, tutto diventa dannatamente e drammaticamente reale. E’ come se mi fosse arrivato un ariete nello stomaco.
“Io avevo una storia di pedopornografia e non ero da sola, eravamo un gruppo di bambini”.
L’autrice si è ben guardata dall’entare nei dettagli di quei momenti, ma ha portato la platea nella sua storia esistenziale, nel suo percorso di elaborazione, in ciò che è ora, descrive il suo attuale impegno nell’accompagnamento di persone che da bambini sono state a propria volta vittime di abusi.
Siamo ben lontani dalla retorica falsa e discriminante dei bambini vittima delle guerre, della fame, della povertà: di fame, guerre e povertà, i bambini sono vittime esattamente come gli adulti. Questi sono atti specificatamente a danno dei bambini, di cui loro sono le vittime designate per brama sessuale, per soldi, per alimentare un sordido mercato.
Mi assale la rabbia, stiamo toccando aspetti di ingiustizia quasi inconcepibili, qui c’è tutto il peggio: discriminazione, prevaricazione, violenza, avidità, manipolazione.
Francesca Svanera parla quasi scusandosi, con estrema delicatezza, evidenzia la difficoltà del parlare pubblicamente dell’argomento degli abusi sui bambini, un tabù, sottolineando la quasi impossibilità di riuscire a parlare dell’altro aspetto, la pedopornografia, un tabù ancora più radicato. E’ un pessimo segno, è lo specchio di una società incapace di convivere con la sofferenza, che la rifiuta, incapace di solidarizzare con essa: “Se c’è un tabù sugli abusi intra-familiari, sulla pedopornografia c’è un maxi tabù. Non se ne può proprio parlare, perché sconvolgi chi hai davanti”.
Una società che lascia morire le persone in mare come accade ai migranti nel Mediterraneo, come può essere sensibile alla sofferenza di bambini vittime di sordida e avida violenza?
Tutto ciò però crea inevitabilmente uno Stato indifferente alla sofferenza, uno Stato crudele, che cura sempre meno, che non assiste, che non accompagna.
Dagli interventi di educatori, psicologi, operatori dell’infanzia è emerso che manca completamente una formazione specifica e approfondita su questi temi, anche in ambito forense.
E’ emerso come in taluni casi anche in ambito processuale manchi la necessaria sensibilità nel trattare un tema così delicato. “Un bambino non è pronto cognitivamente a capire l’abuso sessuale” ha affermato l’autrice.
“E’ stato confermato dalle neuroscienze che il cervello di un bambino che viene traumatizzato prima dei 15 anni circa, ‘spegne’ delle aree celebrali e ne attiva delle altre”.
“Pensiamo che gli episodi di violenza e abusi, perché la narrazione è un po’ quella, avvengano d’improvviso: ad un certo punto arriva ‘l’uomo cattivo’ e ti fa del male. Non funziona assolutamente così: l’80% degli abusi sessuali, delle violenze, avviene in famiglia. L’abusante conosce molto bene la famiglia, le persone di riferimento del bambino. Le manipola per farsi accettare, per ottenerne la fiducia. Il bambino da parte sua concluderà che se i genitori si fidano di questa persona allora: ‘questa cosa posso farla’ ”
“La parola pedofilia identifica abusi su bambini e adolescenti extra-familiari, quell’80% di abusi di cui parlavo prima non rientra in questa definizione. Non esiste quindi una parola che identifichi gli abusi sessuali perpetrati all’interno della famiglia, esiste la descrizione dell’atto. Questo ci dice quanto poco se ne parli. Per le vittime di questi atti è difficile, perché non c’è una parola che li riconosca”.
“Non ci sono strutture istituzionali che insegnino alla famiglia a tutelare i propri figli. Questo dipende da una visione culturale che esclude che in famiglia possano succedere queste cose. Spesso i genitori sono convinti che questi eventi debbano essere nascosti ‘sotto il tappeto'”.
“Non abbiamo all’università esami specifici sugli abusi sessuali su bambini, abbiamo corsi mischiati ad altre cose”. “Perché manca una cultura specifica, anche universitaria su questo problema? Perché non pariamo di questa cosa, perché questa cosa ‘non esiste’. Ci sono, tra l’altro, pochissimi dati. L’ONU ha chiesto all’Italia una banca dati sui maltrattamenti ai bambini”. L’Italia non l’ha ancora realizzata.
“Nei processi succede ancora che i Giudici e gli avvocati siano la lente d’ingrandimento del sistema patriarcale che c’è all’esterno. Accade che, soprattutto quando il bambino o la bambina abbia subito abusi sopra i 12 anni, vengano indagati i suoi comportamenti”, che venga indagata quindi una sorta di complicità da parte sua. Qui riemerge il problema culturale, che appare sempre più evidente nella Magistratura.
“Una persona abusata nell’infanzia ha dei sintomi, se una persona ha 3, 4 di questi sintomi qualcosa è successo. Perché non si formano le persone che sono in contatto con i bambini a riconoscere questi sintomi?”
“Se il genitore o l’adulto non ha conoscenza: come fa ad aiutare chi ha di fronte? Il bambino conosce, perché ha un vissuto. E’ assurdo che il bambino conosca e l’adulto no”. “Io nella mia vita di segnali ne ho mandati tanti”.
“Quando un adulto non ha conoscenza non è pronto ad accogliere un bambino con un trauma, questo genera di fatto un abuso sull’abuso, perché nessuno ti accoglie”.
Parla l’autrice, Francesca Svanera: