Di grande interesse è stata la conferenza, nell’ambito dell’EireneFest, il primo Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza, sul tema «Prevenire la violenza, costruire la pace», dedicata alla figura e all’opera di Alberto L’Abate (1931-2017), che si è tenuta presso lo spazio Bertha Kinsky (von Suttner) al Giardino del Verano, a Roma, domenica 5 giugno. Al tempo stesso, si può dire, un’occasione straordinaria, per condensare, in poco più di un’ora, il vasto patrimonio metodologico e intellettuale, di ricerca e di azione, nel contesto della ricerca e dell’iniziativa per la pace, legato all’insegnamento di Alberto L’Abate; ma anche un momento singolarmente emozionante, dove i/le partecipanti hanno avuto la possibilità, tra le altre cose, di ricordare il “proprio” Alberto L’Abate, attraverso il filtro della propria esperienza personale, delle occasioni personali di confronto e di condivisione, dei momenti condivisi nel contesto della ricerca scientifica ovvero dell’azione sul campo.
Una figura di intellettuale e attivista a tutto tondo
La figura di Alberto L’Abate, infatti, è irriducibile ad una definizione univoca o esaustiva: certamente, in senso generale, pioniere, in Italia, della moderna formulazione della «ricerca per la pace», cui ha offerto un contributo seminale e nel contesto della quale risulta una delle figure più importanti nel panorama italiano e a livello internazionale; e tuttavia, nello spirito della ricerca-azione di cui è stato maestro e ispiratore, al tempo stesso, attivista per il cambiamento sociale e per la costruzione della pace; ispiratore e fondatore di IPRI-CCP (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace); promotore del corso di laurea per “Operatori di pace, gestione e mediazione dei conflitti” dell’Università di Firenze, e docente di Sociologia dei conflitti e ricerca per la pace e di Metodi di analisi e ricerca per la pace con la Transcend University. L’incontro al Verano è stato quindi l’occasione anche per mettere a fuoco, come bene è stato evidenziato sin dal titolo della conferenza, i due momenti fondamentali dell’impegno di Alberto L’Abate e anche i due assilli costanti nella sua opera di ricerca-azione e di educazione-intervento. Da un lato, la costruzione della pace attraverso una costante opera di tessitura della relazione, di costruzione della comunicazione e del dialogo tra pari, di sostegno e di rafforzamento delle parti più deboli e più esposte per consentire loro di recuperare spazio e voce per affermare la propria dignità e lottare per i propri diritti. Dall’altro, la prevenzione della violenza, come momento decisivo di apertura di spazi in grado di contrastare la logica dello scontro e l’esercizio della violenza, attraverso la capacità di individuare gli eventi-sentinella, di segnalare tutte le possibili minacce di escalation, di allerta tempestiva per prevenire il rischio della precipitazione del conflitto. Infatti, seguendo le sue parole, «se un conflitto viene previsto in anticipo, e si interviene positivamente prima che questo esploda nella sua virulenza, le possibilità di una soluzione pacifica sono decisamente più grandi». Un criterio che ha sempre, nei diversi contesti, animato le più importanti sperimentazioni sul campo di cui Alberto L’Abate è stato protagonista, dalla campagna per i «Volontari di Pace in Medio Oriente» al progetto delle «Ambasciate di Pace a Prishtina», Kosovo, per lo sviluppo dei Corpi Civili di Pace e la Form/Azione alla Nonviolenza a Comiso.
Coinvolgere tutti e tutte per una Cultura della Pace
In tal senso, i vari interventi che si sono susseguiti (Olivier Turquet, coordinatore della redazione italiana di Pressenza e direttore dell’associazione editoriale Multimage; Giovanni Scotto, docente di Sviluppo economico, Cooperazione internazionale e Gestione dei conflitti presso l’Università degli Studi di Firenze; Gianmarco Pisa, operatore di pace, segretario di IPRI-CCP; Anna Luisa Leonardi, compagna di una vita di Alberto L’Abate e attivista per la pace e la nonviolenza, protagonista di decenni di lotte e di mobilitazioni) hanno messo in risalto vari aspetti del suo insegnamento, più vivo e attuale che mai, a partire dalla sua, costantemente viva e presente, tensione etica e dal suo, acceso e intensissimo, attivismo sociale. In Alberto L’Abate – come mostra anche la sua propensione a declinare la ricerca-azione nelle forme dell’educazione-intervento – ricerca scientifica, apporto metodologico (è stato infatti metodologo delle scienze sociali), intervento progettuale e attivismo sociale, costantemente presente nello spazio pubblico, erano e sono “una cosa sola”. Il coinvolgimento di tutti e tutte e la costruzione di spazi di partecipazione sempre più inclusivi e coinvolgenti costituiscono, infatti, altrettante stelle polari della sua iniziativa: «Tutti dovrebbero fare educazione alla pace, come genitori, come cittadini, come membri di un consesso sociale, come educatori, e in tutti gli ambiti: nella famiglia, nella scuola, nel vivere sociale. Il problema di fondo è la competenza professionale. Una buona educazione alla pace necessita di buoni professionisti, non si può improvvisare, ma il ridurre l’educazione alla pace ad alcuni esperti sarebbe tradire l’idea «tutti»; i genitori, gli educatori, i cittadini, dovrebbero, quindi, avere a disposizione le competenze, anche professionali, per l’educazione alla pace» (Quaderni del Ferrari, n. 9, a. 1998, p. 45).
Gli strumenti preziosi del «lavoro di pace»
È un po’ questa la base in virtù della quale educazione, formazione e intervento (si pensi al contributo decisivo da lui offerto nella puntualizzazione metodologica e nello sviluppo concettuale degli Interventi Civili di Pace e dei Corpi Civili di Pace), con l’adeguata preparazione degli attivisti e delle attiviste e con l’incisivo coinvolgimento delle realtà sociali di orientamento democratico, pacifista, nonviolento, si sono poi potute concretizzare in alcune esperienze fattive di estrema attualità e vitalità, a partire dalle sperimentazioni del Campo della Pace (realizzato nel 1990 a Baghdad, in Iraq) e, più ancora, delle Ambasciate di Pace a Prishtina, in Kosovo (realizzate, nello specifico, tra il 1995 e il 1999). Queste ultime, nelle parole stesse di Alberto L’Abate, agiscono «per riaprire la comunicazione tra serbi e albanesi della Serbia e del Kosovo, in particolare tra gruppi di base delle due parti; per appoggiare le poche organizzazioni del Kosovo non soggette alla pulizia etnica e perciò miste, da noi definite «focolai di pace» […]; per far conoscere, con visite di studio, mozioni, mostre fotografiche, video, convegni, libri, articoli e conferenze, i problemi di quest’area al pubblico più vasto del nostro Paese ed alla nostra classe politica; per studiare a fondo, ascoltando le ragioni delle due parti, le possibili soluzioni nonviolente al conflitto, sia elaborate da noi stessi, sia da altre organizzazioni non-governative attive in questa area, e presentarle, in incontri appositi per la mediazione del conflitto cui erano presenti le due parti (Vienna, Austria e Ulcinj, Montenegro), al nostro Ministero e al Parlamento Europeo».
L’orizzonte della pace positiva, «pace con giustizia»
Si tratta cioè di andare, ancora con l’insegnamento di Alberto L’Abate, «oltre la pace negativa», per traguardare un orizzonte di pace positiva, pace come affermazione di relazioni e contenuti di inclusione e di giustizia, pace con diritti umani e giustizia sociale. Ancora nelle sue parole, in definitiva: «lo sviluppo dal basso di forme di diplomazia popolare (tra cui si inserisce, a buon diritto, l’esperienza delle Ambasciate di Pace) può aiutare la costruzione di una pace mondiale che non sia soltanto «assenza di guerra», ma trasformazione delle relazioni tra i popoli e che fondi la risoluzione delle controversie sulla prevenzione del conflitto armato nella ricerca di soluzioni giuste ma pacifiche, piuttosto che sugli equilibri e le alchimie politico-militari». È impossibile non registrare quanto questa lezione, e l’insegnamento complessivo, nei suoi scritti e nelle sue iniziative, di Alberto L’Abate, nel tempo del presente, continuino ad essere vivi ed attuali più che mai.