Incontro con Mimmo Lucano al No Mafia Memorial di Palermo, voluto dal Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato e dall’Associazione Peppino Impastato

Un pomeriggio intensissimo di emozioni e di approfondimenti quello del 17 giugno appena trascorso al No Mafia Memorial di Palermo, così denso che non può ridursi a un resoconto: l’intento originario era valutare le motivazioni della sentenza (ne ha già scritto Fulvio Vassallo Paleologo, che ha svolto il ruolo di moderatore), ma a poco a poco ricordi, intenzioni, desideri e progetti hanno preso il sopravvento, specie nelle parole accorate dell’ex sindaco di Riace.

“In tre sindacature, ho fatto dell’accoglienza non solo un’affermazione del rispetto dei diritti umani, ma anche un’occasione per lo sviluppo del territorio e per la lotta contro le mafie. Dal 2009 ero responsabile dell’Ufficio Amministrativo e, quando una famiglia sudanese di nove persone fu chiamata a pagare 5 euro e 50 centesimi a testa per ottenere le carte d’identità, decisi che da quel momento quei soldi li avrei versati di tasca mia. Poi, eletto sindaco, eliminai questi diritti di segreteria, forse troppo sbrigativamente, senza seguire la procedura ufficiale…”

Quando a Locri non esisteva un albo ufficiale delle cooperative e i locali del Tribunale non avevano l’agibilità, Lucano estromise alcune cooperative in odor di mafia dal progetto di accoglienza; staccò l’acquedotto di Riace dalla rete regionale; pretese il controllo pubblico dello smaltimento dei rifiuti; perfino le imprese funebri locali contestarono la sepoltura dei migranti nel cimitero di Riace divenuto multietnico. Alcuni di questi soggetti giuridici hanno testimoniato poi per l’accusa durante il processo.

Quando il modello Riace, ora imitato in tutto il mondo, fu avviato, nei primi anni Duemila, vigeva la legge Turco-Napolitano; venivano stabiliti flussi d’ingresso (sia pure solo sulla carta); “la Prefettura mi osannava perché le risolvevo il problema degli sbarchi”, confessa Lucano. Poi vennero i decreti Minniti e Salvini e quello che era meritorio si mutò in delittuoso. “Al tempo dello sbarco del 1998, tutto avvenne spontaneamente, con la collaborazione del vescovo, Mons. Bregantini, vicino alla teologia della liberazione e al Movimento dei Lavoratori per il Socialismo, mentre io ero di Democrazia proletaria” (vescovo, che poi deporrà al processo a favore dell’imputato e della sua <<visione profetica>>, citando l’Enciclica Fratelli tutti n.d.r.). Fu rimesso in uso il borgo, ricostruite case, nacquero la scuola, il doposcuola, la mensa sociale, il banco alimentare; riacesi e richiedenti asilo lavorarono affiancati con contratti regolari. Fu perfino creata una moneta, per gli scambi interni, con le effigi di Peppino Impastato, di Martin Luther King e Che Guevara.

Lucano viene coinvolto all’inizio del 2020 nel processo Xenia, nell’aura di criminalizzazione generalizzata dei soccorsi in mari, dell’operato delle ONG, dell’accoglienza, e condannato a 13 anni e 2 mesi (quasi il doppio di quanto richiesto dall’accusa), per associazione a delinquere, frode, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa. Curioso che il primo reato, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per il quale era stato anche arrestato, sia stato archiviato! Curioso, ma non troppo se si pensa che avrebbe impedito l’accusa di associazione a delinquere, passibile di ben più aspra condanna (art. 416 dei codici Zanardelli e Rocco)! Curioso anche che gli sia stato contestato il falso in atto pubblico per aver concesso una carta d’identità a un bimbo di 4 mesi privo di permesso di soggiorno, affinché potesse essere curato, ma che lo stesso reato non gli sia stato ascritto per la carta d’identità data a Becky Moses, poi morta nell’incendio del 2017 della baraccopoli di San Ferdinando. Curioso, ma non troppo se si pensa che la responsabilità di quel campo era del prefetto Di Bari, la cui moglie oltre tutto era indagata dal 2016 per la gestione non troppo limpida di alcuni centri di accoglienza…

La sociologa Giovanna Procacci, che ha seguito tutte le udienze, paragona il processo Lucano al processo contro Danilo Dolci per lo “sciopero alla rovescia” del 1956, in cui l’attivista triestino fu difeso da Piero Calamandrei, il quale in quell’occasione parlò di “rovesciamento di senso”: c’è nei processi politici un marcatore comune, non ci sono fatti ma idee, sparisce il contesto, l’identità dell’inquisito viene capovolta. In questo caso, l’accoglienza diventa sistema clientelare per l’accaparramento dei voti, il volontariato peculato, la trasparenza amministrativa corruzione.

Il sociologo Santoro parla di questo processo come di una “cerimonia di degradazione”, che è resa possibile dal fatto che l’accusatore può presentarsi come incarnazione di un sentire comune e pubblico. Ciò spiega l’enormità della pena: si mira a distruggere un’identità politica fortissima. Se non che, come osserva Umberto Santino, questa volta la cerimonia di degradazione si è risolta in un effetto boomerang: la condanna ha suscitato indignazione e solidarietà dappertutto; “il villaggio globale” di Riace, come a Lucano piace chiamarlo, sta risorgendo. Ci sono nuove ospiti: dodici bambine afghane e diverse donne nigeriane; Lucano resta in contatto con il movimento di liberazione curdo, cui aveva aderito fin dall’inizio. 

L’appello inizierà il 6 luglio, ma nel frattempo la scelta dell’ex sindaco è quella della disobbedienza civile: non intende pagare la multa, poiché sarebbe un’ammissione di colpevolezza, “il riconoscimento di una forma di legalità squallida”. I soldi raccolti dall’associazione “A buon diritto”, di cui sono garanti Manconi e Colombo, desidera siano impegnati per accogliere più profughi a Riace. “Nell’appello non voglio l’attenuazione della pena, non accetto neanche un giorno in meno, voglio la riabilitazione del nostro lavoro, voglio la luce della verità”.

Chiudiamo con le parole di Francesco Saccomanno, anch’egli presente ad ogni seduta del processo, amico e compagno sincero di Lucano senza incertezze.

“Essendo un uomo di legge”.

(da una frase del Colonnello Sportelli nel processo di Locri,

mentre parla di migranti e chiede quasi di essere ringraziato). 

Parafrasando il Calamandrei della famosa epigrafe “Lo avrai camerata Kesserling”,

noi gli rispondiamo. 

“Lo avrete, 

giudici ed inquisitori, il monumento che pretendete da noi compagni

e da quanti vogliono Restare Umani. 

Ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi. 

Non con le membra straziate 

delle migliaia di esseri inermi 

distrutti dalla disumanità di leggi ingiuste

non con la terra dei cimiteri

dove i nostri fratelli migranti

riposano in serenità

non con la neve insanguinata delle montagne

che per tanti inverni li sfidarono

non con la primavera di queste valli

che li videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati

più duro d’ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che, come Mimmo, volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e la disumanità del mondo.

Su queste strade se vorrete tornare

ai nostri posti ci ritroverete

morti e vivi con lo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA