Ancora colpi di arma da fuoco contro i pescherecci siciliani operanti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Sembra che alcuni colpi abbiano raggiunto gli scafi ma non sono state diffuse riprese con foto o video, mentre i media si affrettano a precisare che non ci sono feriti o danni alle persone. Insomma sembra quasi un incidente, ancora una volta un incidente, guai a mettere in discussione i rapporti con i libici. Stavolta le motovedette, partite quasi certamente da un porto della Cirenaica, non avrebbero avuto autonomia per arrivare fino a Bengasi dalla Tripolitania, hanno preso di mira il ‘Salvatore Mercurio e il ‘Luigi Primo’, due motopesca iscritti al Compartimento marittimo di Catania. Le due imbarcazioni si trovavano a nord di Bengasi per la pesca del tonno e del pesce spada, in acque internazionali che i libici, però, riconoscono, in maniera unilaterale, come zona di protezione della pesca (ZPP) o zona di esclusivo interesse economico (ZEE). Sono stati “tre quarti d’ora di inferno, ci sparavano addosso e volevano speronarci. Siamo salvi solo grazie alla nave della Marina Militare italiana che è intervenuta”, ha dichiarato un membro dell’equipaggio ai cronisti. Il pronto intervento della fregata Grecale ha evitato il fermo dell’imbarcazione ed un possibile sequestro.

Malgrado i tentativi di ridimensionamento dell’accaduto, successivamente operato dai principali media, occorre porsi alcune domande, anche perché si tratta di episodi frequenti. Come è possibile che dopo tutti gli accordi stipulati con le diverse autorità libiche, e dopo il ruolo di coordinamento italiano svolto in favore dei guardiacoste tripolini, i controlli sulle attività di pesca in acque internazionali, come sui soccorsi in alto mare, si debbano concludere con l’uso delle armi? Chi controlla davvero le unità che si autodefiniscono come “Guardia costiera libica” davanti alle coste della Cirenaica, da Misurata a Tobruk? Con chi tratta davvero il governo italiano quando invia risorse economiche ed attrezzature in Tripolitania, o si fa mediare dai rappresentanti ENI in Cirenaica, in particolare nel golfo di Sirte, per garantire al nostro paese l’agibilità degli impianti e dunque le forniture di petrolio?

Lo ammette anche il ministro dell’interno Lamorgese, “ ora in Libia non c’è un governo nella pienezza di poteri, politicamente parlando, è una situazione geopolitica molto difficile”. L’ammissione di un fallimento se si pensa a quanto dichiarava lo stesso ministro lo scorso anno, all’indomani di una strage di migranti al largo di Al Khoms, nella quale perdevano la vita 130 persone e dal Viminale arrivava una dichiarazione in difesa della sedicente Guardia costiera libica, con “la piena disponibilità dell’Italia a sostenere progetti di collaborazione e a sollecitare l’Unione europea a prestare al governo di Tripoli il massimo e più concreto sostegno” . Al “governo di Tripoli”? Forse lo scorso anno il “governo di Tripoli” disponeva di un maggiore controllo del territorio nazionale rispetto ad oggi? Quanto è pesata l’assenza di una politica europea rivolta ai paesi della sponda sud del Mediterraneo, e quando finirà la politica estera europea, basata principalmente sul contrasto della mobilità delle persone migranti ?

Eppure lo stesso ministro Lamorgese, ed i governi che si sono succeduti nel tempo, sono ben consapevoli della frequenza degli attacchi portati dalle motovedette libiche ai pescherecci italiani che operano al limite (e spesso all’interno) delle acque che i libici si sono attribuiti, dopo gli accordi bilaterali stipulati con l’Italia, con Malta, con la Grecia e con la Turchia, all’insegna del contrasto di quella che viene definita immigrazione “illegale”. Anche se in realtà, nella maggior parte dei casi, sui barconi si trovano potenziali richiedenti asilo in fuga dalla Libia, che cercano di raggiungere la frontiera di un paese sicuro, come non lo sono i paesi africani, per presentare una istanza di protezione internazionale. La normativa emergenziale adottata per il diffondersi della pandemia da Covid 19 ha ulteriormente aggravato gli sbarramenti delle frontiere marittime europee, con un contrasto sempre più evidente con il diritto di accesso al territorio per presentare una istanza di protezione, garantito sulla carta dalla Convenzione di Ginevra del 1951

Anche lo scorso anno, ma già dal 2017, da quando si tentava di delegare ai libici i respingimenti collettivi in acque internazionali, era evidente a tutti, anche se ben nascosto dai media, dietro la campagna diffamatoria contro le ONG, che in Libia non ci fosse un unico governo in grado di controllare l’intero territorio nazionale, inclusi porti ed acque territoriali. Come era ampiamente documentato da numerosi rapporti internazionali, ed anche dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite, che i Guardiacoste libici agissero con le armi per fare valere pretese di controllo sulle acque internazionali che, in violazione del Diritto internazionale, erano state avallate dal governo Gentiloni quando nel 2017 aveva sostenuto l’invenzione di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) “libica, all’esclusivo scopo di dissuadere i soccorsi umanitari e delegare ai libici i respingimenti collettivi, per cui l’Italia era stata condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirsi), e per tenere lontane le ONG. Eppure, malgrado quella condanna, nei faldoni di indagine, dopo i soccorsi operati dalle ONG, si arrivava a parlare di “sottrazione di migranti” alla Guardia costiera “libica”. A quale Guardia costiera? Forse a quella stessa Guardia costiera “libica” che era collusa con i trafficanti ed accompagnava i battelli carichi di migranti fino al limite delle acque internazionali, come si è verificato in almeno uno dei tre casi di soccorso contestati nel processo Iuventa a Trapani ? Evidentemente i corsi di formazione sui diritti dei rifugiati, gestiti dalle Nazioni Unite e rivolti ai componenti della Guardia costiera libica, non hanno ancora ottenuto i risultati sperati. Ma forse occorrerebbe ricordare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Aumenta intanto il numero delle persone che scompaiono nel buco nero dei centri di detenzione dopo essere state intercettate in mare. E da Tripoli si stringono nuovi accordi con i paesi di origine, anche ad alto rischio, per facilitare le deportazioni forzate.

 

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