Rue du Lac 1, Tunisi: da più di un mese, un sit-in di persone migranti occupa la strada giorno e notte. Duecentoquattordici persone, tra rifugiati e richiedenti asilo, sono infatti costrette ad accamparsi in strada da quattro mesi di fronte alla sede blindata dell’UNHCR. Si tratta di una protesta pacifica per ottenere il trasferimento per vie legali in un Paese sicuro. Questa rivendicazione, però, è l’estrema conseguenza di una vita che i manifestanti descrivono quasi come un’apartheid in Tunisia. Discriminazioni salariali, morti sul lavoro, aggressioni razziste, violenze sessuali: sono solo alcune delle violazioni sistematiche che le persone migranti subiscono nel Paese nordafricano.
Nessuna legge sull’asilo in Tunisia, partner strategico dell’Europa nel dossier migratorio.
La cronicizzazione della crisi libica ha contribuito a fare della Tunisia uno dei soci strategici dell’Europa nel cosiddetto “contrasto dell’immigrazione clandestina”. Si tratta di una formula-ombrello, come noto, con cui si definiscono le politiche europee di esternalizzazione delle frontiere, attraverso accordi bilaterali con i governi del vicinato mediterraneo. Politiche che, nel caso di Libia, Tunisia ed altri Paesi, consistono in ingenti finanziamenti alle guardie costiere per riportare a terra le persone illegalizzate. Più che la porta dell’Africa, queste politiche stanno trasformando i Paesi del Nord continentale in delle vere e proprie trappole per chi fugge da guerre e crisi dell’Africa cosiddetta sub-sahariana.
Il caso tunisino è particolarmente grottesco. Undici anni dopo la rivoluzione, il Paese vive una crisi sistemica cronica. Gravi livelli di disoccupazione spingono decine di migliaia tra gli stessi cittadini tunisini ad intraprendere il viaggio illegale attraverso il Mediterraneo. Viaggio che andrebbe definito come illegalizzato, dal momento che – in Tunisia – manca una legislazione migratoria organica che possa gestire nell’efficienza e nella legalità la migrazione delle persone residenti e straniere.
Nonostante questo, la Tunisia è considerata paese sicuro dalla comunità internazionale, e anche per questo i programmi di reinsediamento attivabili da paesi terzi scarseggiano. Di fatto, nel 2021 sono state evacuate e ricollocate solo 76 persone, il 75% meno che dalla Libia.
In questa situazione, le Nazioni Unite e in particolare l’UNHCR, sono le uniche responsabili delle sorti dei richiedenti asilo e rifugiati in Tunisia. Per questo, è contro l’agenzia stessa che protesta il gruppo di 214 manifestanti al LAC 1 di Tunisi.
Al sit-in partecipano circa una trentina di bambini: negato il loro accesso all’istruzione (foto di Biggi, Lomaglio e Ramello)
Proteste pacifiche per protezione e ricollocamento immediato
Sono originari di otto paesi africani: Eritrea, Sudan, Etiopia, Ciad, Niger, Libia, Repubblica Centrafricana, Somalia. Presenti anche alcune famiglie senza cittadinanza, appartenenti alle popolazioni del Sahara.
Da lontano appaiono come una folla di teste, piedi e mani in movimento. Ragazzi, uomini, donne e bambine; striscioni in cinque lingue; tappeti, cartoni e coperte stesi a terra alla rinfusa; chi dorme e chi vaga; chi parla in modo concitato e chi mormora piano, quando non si canta; chi fissa la strada con lo sguardo perso; chi mangia un pezzo di pane duro inzuppato nel latte freddo.
Mohammed1, ragazzo del Darfur, regione situata nel sud-ovest del Sudan, afferma: «Per rifugiati e richiedenti asilo, la vita in Tunisia è pericolosa, vogliamo l’evacuazione subito». Nel Darfur, infatti, continua da anni un genocidio contro la popolazione locale. «L’UNHCR dice di essere responsabile di noi, ma in realtà non ci viene data alcuna protezione – se potessi, tornerei in Libia subito. Meglio morire sotto i colpi di proiettile che così, soffrendo lentamente».
L’Europa è sorda, seppur vicinissima. Secondo l’UNHCR, l’evacuazione dalla Tunisia non è un diritto dei manifestanti, essendo il paese firmatario della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Eppure, le procedure burocratiche per ottenere l’asilo sono lunghe e complesse, nell’assenza di una legge che implementi nella realtà quella convenzione internazionale. Il lavoro regolare scarseggia, l’accesso alla scolarizzazione è limitato, come la possibilità di ricevere efficaci cure mediche gratuite.
Dopo i sudanesi, gli eritrei rappresentano il secondo gruppo più consistente. Giovanissimi, siedono assieme e cenano con fagioli in scatola freddi e maionese. Arrivati attraversando il Sudan e la Libia, dove hanno subito torture e violenze sessuali, sono giunti in Tunisia per mare, dopo il naufragio sulle isole Kerkennah, non lontane da Sfax. Una sorte simile è toccata a chi, partito dalle città libiche di Sabrata, Zaouia, Zouara o Tripoli, riesce, spesso dopo la terza o quarta intercettazione in mare, a lasciare la Libia, ma non a raggiungere la Sicilia. Intercettati dalla guardia costiera in acque internazionali o tunisine, i passeggeri sono portati poi a Sfax o Gabes, dove per la maggior parte inizia l’interminabile procedura di asilo in Tunisia.
Tra i manifestanti anche un gruppo consistente di Tuareg apolidi del deserto libico, ai quali è negato il diritto di cittadinanza. Seduto assieme alla sua numerosa famiglia, Abdelkarim ci racconta di come è arrivato in Tunisia passando per la frontiera terrestre a Dehiba. Hanno chiesto asilo a Tataouine, un’altra città del governatorato meridionale di Medenine. Arrivate in Tunisia, molte vengono messe in prigione per ore o giorni, con l’unica accusa di essere entrate in maniera non autorizzata in territorio tunisino. Individuati per la loro pelle marrone e nera, vengono arrestati in piena violazione del diritto umano alla libertà di movimento.
Tra i manifestanti, 30 sono le donne, di ogni età. Fatma, una donna sudanese, siede su una stuoia accanto alle figlie e ad altre connazionali. Fuggita dal Sudan nel 2011, per evitare il matrimonio forzato e la mutilazione genitale delle ragazzine, ha lavorato per anni in Libia come infermiera in una clinica privata. Non riuscendo a partire per l’Europa, ha deciso di venire in quello che è dipinto come il più liberale e accogliente tra i paesi del Nord Africa: la Tunisia.
Dopo aver ricevuto la carta di richiedente asilo, l’UNHCR le ha offerto un appartamento con affitto pagato. Aspettando l’intervista per la determinazione dello status di rifugiata, pensava che tutto sarebbe andato per il meglio. Dopo qualche settimana, però, è stata espulsa insieme alle figlie. «Per farci uscire di casa, ci hanno tagliato acqua e luce: così ce ne siamo dovute andare».
Transenne e filo spinato: la sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati a Zarzis, Tunisia (foto di Biggi, Lomaglio e Ramello)
Il ruolo dell’UNHCR
Le storie di queste persone convergono su questo punto: a fine gennaio 2022, l’UNHCR ha sfrattato molti dei richiedenti asilo e rifugiati ai quali aveva offerto un’abitazione. Le motivazioni dichiarate dall’Agenzia: mancano finanziamenti, e i centri di accoglienza, sebbene abbiano la capacità di accogliere altre rifugiate – comunque non tutte – vanno riservati a chi arriva dal mare.
Da quando in Libia è scoppiata la guerra, nel 2011, il numero di stranieri fuggiti in Tunisia per cercare la protezione UNHCR è in continuo aumento. Nel 2021 erano ben 9.374, stando ai dati ufficiali dell’organizzazione. Come i partecipanti del sit-in, migliaia di altre persone migranti in Tunisia vivono le dure conseguenze di questa invisibilità paradossale.
Le proteste sono cominciate il 9 febbraio, davanti alla sede di UNHCR a Zarzis, nel governatorato meridionale di Medenine, al confine con la Libia. Le rifugiate e richiedenti asilo dei centri di accoglienza di Zarzis e Medenine, capoluogo del governatorato, protestavano inizialmente contro l’espulsione dagli appartamenti. Poi le rivendicazioni sono cambiate, e i manifestanti, da quel momento, protestano per l’evacuazione immediata e il ricollocamento.
Dopo tre settimane di sit-in a Zarzis, nel contesto di un incontro eccezionale fra il leader e un rappresentante di UNHCR, il gruppo è riuscito a entrare nell’edificio e farsi ascoltare, ottenendo la promessa di una soluzione. Dopo aver dichiarato di essere stato aggredito, il direttore ha deciso la chiusura dell’ufficio fino al 6 maggio.
In quel momento le manifestanti si sono dirette a Tunisi, per continuare il sit-in. Nel tragitto, sono state fermate dalla polizia alla stazione di Zarzis. D’accordo con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il governo nazionale aveva infatti ordinato alle autorità di polizia di impedire alle persone manifestanti di raggiungere Tunisi. Intercettazioni illegali di questo tipo sono avvenute anche ai posti di blocco di Sfax, Gabes, Sousse… grandi città sulla via per il nord tunisino. Ali, un uomo centrafricano, ci racconta di essere persino stato detenuto arbitrariamente per tre giorni mentre tentava di riunirsi ai suoi compagni. Per via di queste interruzioni illegali, le manifestanti sono arrivate a Tunisi dopo una settimana, con mezzi, percorsi e soste diversi, mentre altri, da varie parti della Tunisia, si sono uniti alla protesta. Al loro arrivo al Lac, le prime 18 sono state detenute arbitrariamente. È stata necessaria l’intercessione del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES) per ripristinare la loro libertà e diritto di manifestazione pacifica2. Stando alle dichiarazioni delle manifestanti, gli impiegati evitano ormai da settimane l’ingresso principale, e l’unica comunicazione possibile è ridotta al contatto telefonico fra uno dei leader della protesta e la direttrice responsabile di UNHCR a Tunisi.
Nonostante le gravi condizioni nelle quali queste persone si trovano, UNHCR non effettua un’“evacuazione” di queste persone verso Paesi terzi, come da loro richiesto. Contrariamente alle esperienze dei manifestanti, l’UNHCR considera che in Tunisia, Paese facente parte della Convenzione di Ginevra del 1951, i diritti di base dei rifugiati vengano rispettati e i richiedenti asilo abbiano accesso ai servizi di base3. L’UNHCR sostiene quindi di aver proposto, fin dal primo giorno del sit-in, soluzioni temporanee per togliere le manifestanti dalla strada, e soluzioni a lungo termine come le possibilità di inclusione socio-economica. Intanto, trovare cibo e continuare a dormire per strada si fa sempre più complicato, soprattutto con la diffusione di malattie e gravi disturbi. Alcuni bambini, malnutriti, hanno bisogno di cure mediche. La maggioranza degli adulti ha problemi di salute e necessita di trattamento immediato o continuativo.
Pochi giorni fa, un membro della tribù Tuareg è stato investito a 300 metri dal sit-in ferendosi la testa. Nonostante in ospedale sia subito risultato fuori pericolo, questo ennesimo colpo ha ulteriormente abbattuto il morale del gruppo.
L’11 maggio 2022, l’UNHCR ha proposto ai manifestanti di spostarsi in due nuovi centri di accoglienza presso Tunisi, tentando di placare le proteste. Nonostante siano state fatte promesse di accelerazione delle procedure di asilo, i manifestanti si dicono fortemente sfiduciati nei confronti dell’organizzazione internazionale. Sanno, infatti, che solo uno Stato terzo può decidere di aprire un programma di resettlement e accoglienza. Il tempo passa, e in Tunisia nessuno si prende la responsabilità di queste persone. Persone che – complici gli interessi internazionali volti a classificare la Tunisia come un Paese sicuro – vengono abbandonate in un limbo del quale è impossibile prevedere la fine. Restano così invisibili ed escluse dalla legalità, costrette a restare per strada, inascoltate. Nonostante le difficoltà crescenti, permane la determinazione a resistere. Un gruppo ha già dichiarato che non accetterà altra soluzione se non l’evacuazione. Mentre il morale si abbassa di giorno in giorno, la prospettiva di dover ritornare nell’”inferno” libico si fa sempre più concreta. La Tunisia non era il paradiso che ci si aspettava.
Riccardo Biggi, Valentina Lomaglio e Luca Ramello
Note:
- I nomi di questa rubrica sono di fantasia, per proteggere l’identità delle persone intervistate.
- Da un’intervista con un portavoce di FTDES.
- Da un’intervista con un portavoce dell’Emergency Response Team dell’UNHCR Tunisia, Chiara Cavalcanti.