Questa settimana, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha avvertito che il mondo ha il 50% di possibilità di assistere a un riscaldamento di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali nei prossimi cinque anni. Anche coloro che vedono il bicchiere mezzo pieno tendono a concordare sul fatto che gli sforzi intrapresi finora dai Paesi del mondo per combattere la crisi climatica, per quanto significativi sotto alcuni aspetti, non sono sufficienti. Infatti, l’economia globale continua a fare ampio affidamento sui combustibili fossili, che forniscono tuttora circa l’80% dell’approvvigionamento energetico.
Gli avvertimenti circa l’imminente catastrofe climatica contenuti nella seconda e terza parte dell’ultima valutazione scientifica del Gruppo intergovernativo di esperti sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (IPCC), pubblicate rispettivamente il 28 febbraio e il 4 aprile 2022, sono rimasti completamente ignorati, tra la guerra in Ucraina e l’impennata dei costi energetici.
Negli Stati Uniti, la risposta dell’amministrazione Biden all’impennata dei prezzi del gas è stata quella di consentire nuove trivellazioni di petrolio e gas nelle terre federali e di annunciare “la più grande fornitura di petrolio dalle riserve strategiche”. Anche il resto del mondo ha risposto con una visione a breve termine alle conseguenze della guerra in Ucraina.
Lo studioso attivista di fama mondiale Noam Chomsky si confronta qui con le conseguenze di questo pensiero a breve termine nel pieno dell’escalation delle tensioni militari, in questa intervista esclusiva per Truthout. Chomsky è il padre della linguistica moderna e uno degli studiosi più citati della storia moderna, e ha pubblicato circa 150 libri. È professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology e attualmente professore insignito all’Università dell’Arizona.
(La trascrizione che segue è stata leggermente modificata riguardo alla lunghezza e la chiarezza del discorso.)
C.J. Polychroniou: Noam, la guerra in Ucraina sta causando sofferenze umane inimmaginabili, ma ha anche conseguenze economiche globali ed è una notizia terribile per la lotta al riscaldamento globale. Infatti, a causa dell’aumento dei costi energetici e delle preoccupazioni per la sicurezza energetica, gli sforzi di decarbonizzazione sono passati in secondo piano. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha fatto suo lo slogan repubblicano “drill, baby, drill” (trivella, baby, trivella!), l’Europa è decisa a costruire nuovi gasdotti e impianti di importazione e la Cina ha in programma di aumentare la capacità di produzione di carbone. Puoi commentare le implicazioni di questi spiacevoli sviluppi e spiegare perché il pensiero a breve termine continua a prevalere tra i leader mondiali anche in un momento in cui l’umanità si trova sull’orlo di una minaccia esistenziale?
Noam Chomsky: L’ultima domanda non è nuova. In una forma o nell’altra, si è palesata nel corso della storia.
Prendiamo un caso che è stato ampiamente studiato: perché i leader politici sono entrati in guerra nel 1914, sicuri di essere nel giusto? E perché gli intellettuali più importanti di ogni Paese in guerra si schierarono con entusiasmo appassionato a sostegno del proprio Stato – a parte una manciata di dissidenti, i più importanti dei quali furono incarcerati (Bertrand Russell, Eugene Debs, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht)? Non era una crisi terminale, ma era abbastanza grave.
Lo schema risale a molto tempo fa. E continua con pochi cambiamenti dopo il 6 agosto 1945, quando abbiamo appreso che l’intelligenza umana era salita al livello in cui presto sarebbe stata in grado di sterminare tutto.
La politica di inasprimento della guerra in Ucraina, invece di cercare di adottare provvedimenti per porvi fine, ha un impatto terribile ben oltre l’Ucraina. Il perpetuarsi della guerra è, semplicemente, un programma di omicidio di massa in gran parte del Sud globale.
Osservando da vicino lo schema, mi sembra che nel corso degli anni emerga chiaramente una conclusione fondamentale: qualunque cosa stia guidando la politica, non è la sicurezza – perlomeno, la sicurezza della popolazione. Questa è al massimo una preoccupazione marginale. Ciò vale anche per le minacce esistenziali. Dobbiamo guardare altrove.
Un buon punto di partenza, a mio avviso, è quello che mi sembra il principio più consolidato della teoria delle relazioni internazionali: l’osservazione di Adam Smith secondo cui i “padroni dell’umanità” – ai suoi tempi i mercanti e gli industriali inglesi – sono i “principali architetti della politica [statale]”. Usano il loro potere per garantire che i propri interessi “siano curati nel modo più specifico”, non importa quanto “gravi” gli effetti possano essere su altri, compreso il popolo inglese, ma soprattutto sulle vittime della “selvaggia ingiustizia degli europei”. Il bersaglio di A. Smith era in particolare la ferocia britannica in India, sebbene ancora agli inizi, già abbastanza orribile.
Non cambia molto quando le crisi diventano esistenziali. Gli interessi a breve termine prevalgono. La logica è chiara nei sistemi competitivi, come ad esempio i mercati non regolamentati. Chi non sta al gioco ne è presto fuori. La competizione tra i “principali architetti della politica” nel sistema statale ha delle proprietà in qualche modo simili, ma dobbiamo tenere presente che la sicurezza della popolazione è ben lontana dall’essere un principio guida, come dimostra troppo chiaramente la storia.
Hai totalmente ragione sull’impatto terrificante della criminale invasione russa dell’Ucraina. Il dibattito negli Stati Uniti e in Europa si concentra sulle sofferenze dell’Ucraina stessa, in modo del tutto ragionevole, pur compiacendosi della nostra politica di incremento della miseria, in modo non altrettanto ragionevole. Tornerò su questo punto.
La politica di inasprire la guerra in Ucraina, invece di cercare di adottare provvedimenti per porvi fine, ha un impatto terribile ben oltre l’Ucraina. Come ampiamente riportato, l’Ucraina e la Russia sono importanti esportatori di derrate alimentari. La guerra ha tagliato le forniture di cibo alle popolazioni che ne hanno il più disperato bisogno, in particolare in Africa e in Asia.
Prendiamo solo un esempio, la peggiore crisi umanitaria del mondo secondo le Nazioni Unite: lo Yemen. Secondo il Programma alimentare mondiale, oltre 2 milioni di bambini rischiano di morire di fame. Quasi il 100% dei cereali viene importato, “con la Russia e l’Ucraina che rappresentano la quota maggiore di grano e prodotti di grano (42%)”, oltre a farina e grano lavorato esportati dalla stessa regione.
La crisi si estende ben oltre. Cerchiamo di essere onesti al riguardo: la perpetuazione della guerra è, semplicemente, un programma di omicidio di massa in gran parte del Sud globale.
Questo è il meno. Su riviste apparentemente serie si discute di come gli Stati Uniti possano vincere una guerra nucleare con la Russia. Tali discussioni rasentano la follia criminale. E, purtroppo, le politiche degli Stati Uniti e della NATO offrono molti scenari possibili per una rapida fine della società umana. Per citarne uno, Putin si è finora astenuto dall’attaccare le linee di rifornimento che inviano armi pesanti all’Ucraina. Non sarebbe una grande sorpresa se questa moderazione finisse, portando la Russia e la NATO vicini a un conflitto diretto, con un facile percorso verso un’escalation di tensioni che potrebbe portare a un rapido addio.
Più probabile, anzi altamente probabile, è una morte più lenta per avvelenamento del pianeta. L’ultimo rapporto dell’IPCC ha chiarito in modo inequivocabile che, se vogliamo avere qualche speranza di un mondo vivibile, dobbiamo smettere di usare i combustibili fossili fin da subito, procedendo in modo costante verso la loro pronta eliminazione. Come tu sottolinei, l’effetto della guerra in corso è quello non solo di interrompere le iniziative già troppo timide in corso, ma addirittura di invertirle e accelerare la corsa al suicidio.
C’è naturalmente grande gioia negli uffici dirigenziali delle compagnie che si dedicano alla distruzione della vita umana sulla Terra. Ora non solo sono libere da vincoli e dalle angherie dei fastidiosi ambientalisti, ma sono lodate per aver salvato la civiltà che ora sono incoraggiate a distruggere ancora più velocemente. I produttori di armi condividono la loro euforia per le opportunità offerte dalla prosecuzione del conflitto. Sono ora incoraggiati a sprecare risorse scarse di cui c’è disperato bisogno per scopi umani e di costruzione. E come i loro partner nella distruzione di massa, le multinazionali dei combustibili fossili, stanno rastrellando i dollari dei contribuenti.
Cosa c’è di meglio o, da un altro punto di vista, di più folle? Faremmo bene a ricordare le parole del Presidente D. Eisenhower nel suo discorso “Croce di ferro” del 1953:
“Ogni cannone fabbricato, ogni nave da guerra varata, ogni razzo sparato significa, in ultima analisi, un furto a spese di coloro che hanno fame e non sono nutriti, di coloro che hanno freddo e non sono vestiti. Questo mondo in armi non spende solo denaro. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere pesante è questo: una moderna scuola di mattoni in più di 30 città. Sono due centrali elettriche, coprendo ciascuna i bisogni di una città di 60.000 abitanti. Sono due ottimi ospedali completamente attrezzati. Sono un centinaio di chilometri di pavimentazione in cemento. Paghiamo un singolo caccia con 13000 tonnellate di grano. Paghiamo un singolo cacciatorpediniere con nuove case che avrebbero potuto ospitare più di 8.000 persone…. Questo non è affatto uno stile di vita, nel vero senso della parola. Sotto la nube di una guerra minacciosa, è l’umanità che pende da una croce di ferro“.
Queste parole potrebbero difficilmente essere più appropriate oggi.
Torniamo al motivo per cui i “leader mondiali” seguono questa strada folle. Innanzitutto, vediamo se riusciamo a trovarne qualcuno che meriti questo appellativo, se non ironicamente.
Se ce ne fossero, si dedicherebbero a far cessare il conflitto nell’unico modo possibile: con la diplomazia e l’arte politica. Le linee generali di una soluzione politica sono note da tempo. Ne abbiamo già discusso in precedenza e abbiamo pure documentato l’impegno degli Stati Uniti (con la NATO al seguito) a minare la possibilità di una soluzione diplomatica, apertamente e orgogliosamente. Non dovrebbe essere necessario riesaminare il tetro tema.
Un ritornello comune è che “Mad Vlad” (Vladimiro Pazzo, N.d.R.) è così psicopatico e così immerso in sogni selvaggi di ricostruire un impero, e forse di conquistare il mondo, che non ha nemmeno senso ascoltare ciò che i russi dicono – sempre che si riesca a eludere la censura statunitense e a trovarne qualche frammento sulla TV di Stato indiana o sui media del Medio Oriente. E di certo non c’è bisogno di contemplare un impegno diplomatico con una simile creatura. Pertanto, non esploriamo nemmeno l’unica possibilità di porre fine all’orrore e continuiamo ad aggravarlo, qualunque siano le conseguenze per gli ucraini e per il mondo.
I leader occidentali, e gran parte della classe politica, sono ora consumati da due idee principali: la prima è che la forza militare russa è così schiacciante che potrebbe presto cercare di conquistare l’Europa occidentale, o perfino oltre. Pertanto, dobbiamo “combattere la Russia laggiù” (con i corpi degli ucraini) in modo da “non dover combattere la Russia qui” a Washington, o almeno così ci avverte Adam Schiff, il presidente del House Permanent Select Committee on Intelligence, un democratico.
O agiamo per dimostrare che la nostra capacità morale arriva a controllare la nostra capacità tecnica di distruggere, o che non ci riesce.
La seconda è che la forza militare russa si è dimostrata una tigre di carta, così incompetente e fragile, e così pietosamente guidata, da non poter conquistare città a pochi chilometri dal suo confine, difese in gran parte da un esercito di cittadini.
Quest’ultimo pensiero è oggetto di grande esultanza, mentre il precedente istilla terrore nei nostri cuori.
Orwell definiva il “doppio pensiero” come la capacità di avere in mente due idee contraddittorie e di credere in entrambe, una patologia immaginabile solo negli stati ultra totalitari.
Adottando la prima idea, dobbiamo armarci fino ai denti per proteggerci dai piani demoniaci della tigre di carta, anche se la spesa militare russa è una frazione di quella della NATO, anche escludendo gli Stati Uniti. Chi soffre di perdita di memoria sarà deliziato di sapere che la Germania ha finalmente ricevuto il via libera, e potrebbe presto superare la Russia in termini di spesa militare. Ora Putin dovrà pensarci due volte prima di conquistare l’Europa occidentale.
Per ripetere l’ovvio, la guerra in Ucraina può finire con un accordo diplomatico, o con la sconfitta di una delle due parti; in tempi rapidi o con un’agonia prolungata. La diplomazia, per definizione, è un rapporto di dare e avere. Ciascuna parte deve accettarlo. Ne consegue che in una soluzione diplomatica, a Putin deve essere offerta una via di fuga.
O accettiamo la prima opzione, o la rifiutiamo. Almeno questo non è controverso. Se la rifiutiamo, scegliamo la seconda opzione. Poiché questa è la preferenza quasi universale nel discorso occidentale e continua a essere la politica degli Stati Uniti, chiediamoci cosa comporta.
La risposta è inequivocabile: la decisione di rifiutare la diplomazia implica che ci impegneremo in un esperimento, per vedere se il cane pazzo irrazionale filerà via con la coda tra le gambe in una sconfitta totale, o se userà i mezzi che certamente possiede per distruggere l’Ucraina e porre le basi per una guerra terminale.
Mentre conduciamo questo grottesco esperimento con le vite degli ucraini, ci assicureremo che milioni di persone muoiano di fame a causa della crisi alimentare, giocheremo con la possibilità di una guerra nucleare e correremo entusiasti a distruggere l’ambiente che sostiene la vita.
È certo possibile che Putin si arrenda e che si astenga dall’usare le forze al suo comando. E forse possiamo semplicemente ridere della prospettiva di ricorrere alle armi nucleari. È ipotizzabile, ma che tipo di persona sarebbe disposta a fare questa scommessa?
La risposta è: i leader occidentali, in modo esplicito, insieme alla classe politica. Questo è ovvio da anni, persino dichiarato ufficialmente. E per essere sicuri che tutti lo capiscano, la posizione è stata ribadita con forza ad aprile, in occasione della prima riunione mensile del “Gruppo di Contatto”, che comprende la NATO e i paesi partner. L’incontro non si è tenuto presso il quartiere generale della NATO a Bruxelles, in Belgio. Al contrario, ogni finzione è stata abbandonata e l’incontro si è svolto presso la base aerea statunitense di Ramstein, in Germania; tecnicamente territorio tedesco, ma nel mondo reale appartenente agli Stati Uniti.
Il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha aperto l’incontro dichiarando che “l’Ucraina crede chiaramente di poter vincere, e lo stesso vale per tutti i presenti”. Pertanto, i dignitari riuniti non dovrebbero avere alcuna esitazione a riversare armi avanzate in Ucraina e a perseverare negli altri programmi, orgogliosamente annunciati, per portare l’Ucraina effettivamente all’interno del sistema NATO. Nella loro saggezza, i dignitari presenti e il loro leader garantiscono che Putin non reagirà nei modi che tutti sanno essere possibili.
Osservando la pianificazione militare di molti anni, anzi di secoli, è chiaro che “tutti i presenti” possono davvero avere queste notevoli convinzioni. Che le abbiano o meno, è chiaro che sono disposti a portare a termine l’esperimento con le vite degli ucraini e il futuro della vita sulla Terra.
Dal momento che questa alta autorità ci assicura che la Russia osserverà passivamente tutto ciò senza reagire, possiamo compiere ulteriori passi per “integrare de facto l’Ucraina nella NATO”, in accordo con gli obiettivi del Ministero della Difesa ucraino, stabilendo “la piena compatibilità dell’esercito ucraino con gli eserciti dei Paesi della NATO” – garantendo così anche che non si possa raggiungere alcun accordo diplomatico con alcun governo russo, a meno che la Russia non diventi in qualche modo un satellite degli Stati Uniti.
L’attuale politica statunitense prevede una lunga guerra per “indebolire la Russia” e assicurarne la totale sconfitta. Si tratta di una politica molto simile al modello afghano degli anni ’80, oggi esplicitamente sostenuta in alte sfere, ad esempio dall’ex Segretario di Stato Hillary Clinton.
È in nostro potere giungere alla risposta che tutti auspichiamo, ma non c’è tempo da perdere.
Dal momento che si tratta di un modello vicino all’attuale politica statunitense, persino funzionante, vale la pena di osservare ciò che è effettivamente accaduto in Afghanistan negli anni ’80, quando la Russia invase il paese. Fortunatamente, ora disponiamo del resoconto dettagliato e autorevole di Diego Cordovez, che ha diretto i programmi di successo delle Nazioni Unite che hanno posto fine alla guerra, e dell’illustre giornalista e studioso Selig Harrison, che ha una vasta esperienza nella regione.
L’analisi di Cordovez e Harrison rovescia completamente la versione ufficiale. I due dimostrano che la guerra è stata conclusa da un’attenta diplomazia gestita dalle Nazioni Unite, non dalla forza militare. Le forze militari sovietiche erano ampiamente in grado di continuare la guerra. La politica statunitense di mobilitare e finanziare gli islamisti radicali più estremisti per combattere i russi equivaleva a “combattere fino all’ultimo afghano”, concludono, in una guerra per procura per indebolire l’Unione Sovietica. “Gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per impedire l’emergere di un ruolo delle Nazioni Unite”, cioè gli attenti sforzi diplomatici che hanno posto fine alla guerra.
La politica statunitense apparentemente ritardò il ritiro russo, che era stato contemplato già poco dopo l’invasione – la quale, dimostrano, aveva obiettivi limitati, senza alcuna somiglianza con i grandiosi obiettivi di conquista del mondo evocati dalla propaganda statunitense. “L’invasione sovietica non era chiaramente il primo passo di un piano espansionistico di una leadership unita”, scrive Harrison, confermando le conclusioni dello storico David Gibbs basate sugli archivi sovietici resi pubblici.
L’ufficiale capo della CIA a Islamabad, che gestiva direttamente le operazioni, spiegò il punto principale in modo semplice: l’obiettivo era uccidere i soldati russi – per dare alla Russia il suo Vietnam, come proclamato da alti funzionari statunitensi, rivelando la colossale incapacità di capire qualsiasi cosa dell’Indocina, caratteristica della politica statunitense durante decenni di massacri e distruzione.
Cordovez e Harrison hanno scritto che il governo statunitense “era diviso fin dall’inizio tra “dissanguatori“, che volevano tenere le forze sovietiche bloccate in Afghanistan e così vendicare il Vietnam, e “negoziatori“, che volevano costringerle a ritirarsi tramite una combinazione di diplomazia e pressione militare”. Questa è una distinzione che si ripropone molto spesso. I dissanguatori di solito vincono, causando danni immensi. Per “chi decide”, per riprendere l’autodefinizione di W. Bush, è più sicuro sembrare duri che apparire troppo morbidi.
L’Afghanistan è un caso emblematico. Nell’amministrazione Carter, il Segretario di Stato Cyrus Vance era un negoziatore, che suggerì compromessi di vasta portata in grado di impedire quasi certamente, o almeno fortemente ridurre, quello che doveva essere un intervento limitato. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski era invece il dissanguatore, intenzionato a vendicare il Vietnam, qualunque cosa significasse nella sua confusa visione del mondo, e a uccidere i russi, cosa che capiva molto bene e di cui godeva.
Brzezinski ebbe la meglio. Convinse Carter a inviare armi all’opposizione che cercava di rovesciare il governo filorusso, prevedendo che i russi sarebbero stati trascinati in un pantano in stile Vietnam. Quando ciò avvenne, riuscì a malapena a contenere il suo diletto. Quando in seguito gli fu chiesto se avesse qualche rimpianto, respinse la domanda in quanto ridicola. Il suo successo nell’attirare la Russia nella trappola afghana, sosteneva, aveva portato al crollo dell’impero sovietico e alla fine della Guerra Fredda – per lo più un’assurdità. E a chi importa se ha fatto del male ad “alcuni musulmani fanatici”, come il milione di cadaveri, ignorando dei costi aggiuntivi come la devastazione dell’Afghanistan e l’ascesa dell’Islam radicale.
L’analogia con l’Afghanistan viene sostenuta pubblicamente oggi e, cosa più importante, viene attuata nella politica.
La distinzione tra negoziatori e dissanguatori non è una novità negli ambienti della politica estera. Un esempio famoso, risalente ai primi tempi della Guerra Fredda, è il conflitto tra George Kennan (negoziatore) e Paul Nitze (dissanguatore), vinto da Nitze, che pose le basi per molti anni di brutalità e quasi distruzione. Cordovez e Harrison appoggiano esplicitamente l’approccio di Kennan, con abbondanti prove.
Un esempio similare al conflitto citato sopra è quello tra il Segretario di Stato William Rogers (negoziatore) e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger (dissanguatore) sulla politica mediorientale nel periodo Nixon. Rogers propose soluzioni diplomatiche ragionevoli al conflitto arabo-israeliano. Kissinger, la cui ignoranza della regione era monumentale, insistette sullo scontro, che portò alla guerra del 1973, in cui Israele l’ha scampata bella ad una seria minaccia di guerra nucleare.
Questi conflitti sono quasi perenni. Oggi ci sono solo dissanguatori nelle alte sfere. Sono arrivati al punto di promulgare un’enorme legge sul prestito (di armi, N.d.R.) all’Ucraina, approvata quasi all’unanimità. La terminologia è pensata per evocare il ricordo del gigantesco programma Lend-Lease che portò gli Stati Uniti nella guerra europea (come previsto) e collegò i conflitti europei e asiatici a una guerra mondiale (non previsto). “Il programma Lend-Lease legò insieme le lotte separate in Europa e in Asia per avviare, alla fine del 1941, quella che chiamiamo propriamente Seconda Guerra Mondiale”, scrive Adam Tooze. È questo che vogliamo nelle circostanze odierne, ben diverse?
Se è questo che vogliamo, come sembra essere il caso, riflettiamo almeno su ciò che comporta. È abbastanza importante ribadirlo.
Comporta che rifiutiamo a priori il tipo di iniziative diplomatiche che hanno effettivamente posto fine all’invasione russa dell’Afghanistan, nonostante gli sforzi statunitensi per ostacolarle. Stiamo quindi intraprendendo un esperimento per vedere se l’integrazione dell’Ucraina nella NATO, la sconfitta totale della Russia in Ucraina e le ulteriori mosse per “indebolire la Russia” verranno osservate passivamente dalla leadership russa, oppure se i russi ricorreranno ai mezzi di violenza che indubbiamente possiedono per devastare l’Ucraina e porre le basi di una possibile guerra generale.
Nel frattempo, estendendo il conflitto invece di cercare di porvi fine, imponiamo gravi costi agli ucraini, causiamo la morte per fame di milioni di persone, spingiamo il pianeta in fiamme ancora più rapidamente verso la sesta estinzione di massa e – se siamo fortunati – sfuggiamo alla guerra terminale.
Nessun problema, ci dice la classe governativa e politica. L’esperimento non comporta rischi perché è sicuro che la leadership russa accetterà tutto questo con equanimità, diventando tranquillamente un cumulo di cenere della storia. Quanto ai “danni collaterali”, possono unirsi alle file dei “musulmani fanatici” di Brzezinski. Per riprendere la frase resa famosa di Madeleine Albright: “È una scelta molto difficile, ma il prezzo… pensiamo che il prezzo ne valga la pena”.
Abbiamo almeno l’onestà di riconoscere ciò che stiamo facendo, ad occhi aperti.
C.J. Polychroniou: Le emissioni globali sono salite a livelli record nel 2021, quindi il mondo è tornato a un approccio “business-as-usual” una volta che il peggio della pandemia COVID-19 è passato – per ora. Quanto è programmato il comportamento umano? Siamo in grado di avere dei doveri morali nei confronti delle popolazioni del futuro?
Noam Chomsky: È una domanda profonda, la più importante che possiamo contemplare. La risposta è sconosciuta. Può essere utile pensarci in un contesto più ampio.
Consideriamo il famoso paradosso di Enrico Fermi: in parole povere, dove sono? Fermi, illustre astrofisico, sapeva che esiste un numero enorme di pianeti a portata di potenziale contatto, che hanno le condizioni per sostenere la vita e l’intelligenza superiore. Ma anche con le ricerche più assidue, non riusciamo a trovare traccia della loro esistenza. Allora, dove sono?
Una risposta che è stata proposta seriamente, e che non può essere scartata, è che l’intelligenza superiore si è sviluppata innumerevoli volte, ma si è dimostrata letale: ha scoperto i mezzi tecnici per l’autoannientamento, ma non ha sviluppato la capacità morale di impedirlo. Forse questa è addirittura una caratteristica intrinseca di ciò che chiamiamo “intelligenza superiore”.
Siamo ora impegnati in un esperimento per determinare se questo lugubre principio vale anche per gli esseri umani moderni, arrivati sulla Terra molto di recente, circa 200.000 – 300.000 anni fa, un battito di ciglia nel tempo evolutivo. Non c’è molto tempo per trovare la risposta – o più precisamente, per determinare la risposta, come faremo, in un modo o nell’altro. È inevitabile. O agiremo per dimostrare che la nostra capacità morale arriva a controllare la nostra capacità tecnica di distruggere, oppure che non ci riesce.
Un osservatore extraterrestre, se esistesse, concluderebbe purtroppo che il divario è troppo grande per impedire il suicidio della specie, e con esso la sesta estinzione di massa. Ma potrebbe sbagliarsi. La decisione sta nelle nostre mani.
Esiste una misura approssimativa del divario tra la capacità di distruggere e quella di contenere il desiderio di morte: il Doomsday Clock del Bulletin of Atomic Scientists. La distanza delle lancette dalla mezzanotte può essere considerata un’indicazione del divario. Nel 1953, quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica fecero esplodere le armi termonucleari, la lancetta dei minuti era impostata su due minuti prima di mezzanotte. Non ha più raggiunto quel punto fino al mandato di Donald Trump. Nel suo ultimo anno, gli analisti hanno abbandonato i minuti e sono passati ai secondi: 100 secondi a mezzanotte, dove si trova ora la lancetta. Il prossimo gennaio sarà nuovamente regolato. Non è arduo ipotizzare che la lancetta dei secondi si avvicinerà di più alla mezzanotte.
Il 6 agosto 1945 la triste questione si palesò con brillante chiarezza. Quel giorno ha fornito due lezioni: 1) l’intelligenza umana, nella sua gloria, si stava avvicinando alla capacità di distruggere tutto, un traguardo raggiunto nel 1953; e 2) la capacità morale umana era molto indietro. A pochi importava, come ricorderanno bene alcuni miei coetanei. Considerando l’orribile esperimento in cui siamo entusiasticamente impegnati oggi, e ciò che esso comporta, è difficile vedere un miglioramento, per usare un eufemismo.
Ciò non risponde alla domanda. Sappiamo troppo poco per rispondere. Possiamo solo osservare da vicino l’unico caso di “intelligenza superiore” che conosciamo e chiederci che risposta ci suggerisce.
Molto più importante, possiamo agire per determinare la risposta. È in nostro potere giungere alla risposta che tutti auspichiamo, ma non c’è tempo da perdere.
Traduzione dall’inglese di Dominique Florein. Revisione di Thomas Schmid.
L’intervista realizzata da C.J. Polychroniou per Truthout è stata pubblicata con il titolo “Chomsky: To Tackle Climate, Our Morality Must Catch Up With Our Intelligence”. L’articolo è protetto da copyright e può essere riprodotto solo con l’esplicito permesso della redazione di Truthout, che ringraziamo per la gentile autorizzazione.