Denunce da Bialystok: “Da gennaio sempre più rischi e arresti”.
“Chi aiuta le persone al confine ucraino è trattato come un eroe. In tv vediamo militari e guardie di frontiera dare una mano, prendere in braccio i bambini ucraini, ma la situazione cambia drasticamente quando si tratta di aiutare i migranti al confine con la Bielorussia. L’intera regione di Podlachia sta subendo enormi pressioni: i militari sono ovunque, fermano la gente e controllano le auto, a volte arrestano”. Lena parla con l’agenzia Dire fuori dal tribunale distrettuale di Bialystok, la principale città della Polonia nord-orientale. Chiede di non essere citata né fotografata “per non avere problemi” ma i suoi timori non le hanno impedito di unirsi al sit-in organizzato nella mattinata di ieri di fronte il tribunale: gente espone cartelli per ricordare che non si dovrebbe emigrare nella paura e chiede che sia rilasciata una attivista fermata qualche giorno fa dalla polizia di frontiera poiché fermata mentre trasportava dei migranti in difficoltà, e che quindi ora deve difendersi dall’accusa di “traffico di migranti”.
Mentre parliamo, a un tratto una ragazza sui vent’anni esce sorridente dall’edificio e la folla la acclama: il giudice non ha confermato la custodia cautelare. Ma la giovane come molti altri qui non ha voglia di parlare coi giornalisti e si allontana in fretta. In questa regione dal settembre scorso sono arrivati centinaia di migranti dal confine bielorusso e le autorità polacche, oltre a chiudere quel tratto di confine, hanno imposto una zona di sicurezza profonda 3 chilometri, una linea rossa visibile anche su Google Maps. Un modo, ha assicurato il governo del premier Mateusz Morawiecki, per garantire la sicurezza. Ma secondo i volontari serve a impedire che i profughi – provenienti da Paesi come Siria, Yemen, Afgjanistan o Iraq, tra cui anche donne, malati e bambini – ricevano aiuto, e che giornalisti e osservatori documentino che gli agenti impediscono alle persone di entrare in Europa e di uscire persino dalla zona compresa tra i fili spinati.
Difficile verificare le accuse di respingimenti verso la frontiera bielorussa. Da mesi la gente si nasconde nei boschi, anche con neonati e persone con disabilità gravi, e chiede ai volontari cibo, acqua, medicine. Almeno 24 le morti ufficialmente confermate in quest’area tra le barriere di filo spinato dall’autunno scorso. E da gennaio, “la situazione per chi aiuta è nettamente peggiorata” avverte Kasia, altra volontaria che chiede l’anonimato. “Prima rischiavamo al massimo una multa di 500 sloti – circa 100 euro, in un paese dove il salario medio ammonta a 600 – ora gli arresti avvengono più spesso per aver violato la zona rossa o perché trovano in auto sacchetti di cibo, coperte o powerbank, tutte cose che ti rendono un sospettato perché è ciò che di solito portiamo alle famiglie bloccate nei boschi. Il governo ha capito di non poterci fermare e le forze di sicurezza si sono riorganizzate: danno la caccia sia ai migranti che a noi. Anche i respingimenti sono più frequenti”.
Una pratica, questa, vietata dal diritto internazionale, come riconosciuto anche da una sentenza di un tribunale polacco del 25 marzo accolta con entusiasmo dai volontari. Kasia prosegue: “Se il tuo nome è inserito nella lista degli attivisti puoi essere pedinato e registrano la tua targa. Chi arriva da fuori questa regione riceve un’attenzione particolare. Giorni fa senza motivo, a un posto di blocco mi hanno obbligata a tornare a casa passando per un’altra strada, allungando di decine di chilometri”.
Nonostante le restrizioni scattate a settembre, l’emergenza migratoria da queste parti ha innescato da subito una potente macchina di solidarietà. Lo dimostrano Andrej e Agata, altri nomi di fantasia. Ci troviamo molti chilometri più a nord di Byalistok, in un’area immersa tra i boschi prossima alla ‘zona rossa’ al confine. La coppia dall’autunno scorso non solo cerca di fare arrivare aiuti ai profughi in rete con gli altri volontari ‘dell’ultima ora’, ma quando può li accoglie nella sua grande casa. Alle pareti, foto di famiglia e disegni dei bambini, indizi di una normalità che, dicono sorridendo, “non tornerà più”. Qui, divieto assoluto di foto e riprese: “Dobbiamo restare un approdo sicuro per queste persone”, spiega Agata alla Dire. “Non possiamo fidarci neanche dei vicini, ci potrebbero denunciare”.
Ad essere criminalizzato non è il volontariato in sé ma tutte quelle azioni che potrebbero comportare una contropartita in denaro, insomma ‘un commercio profit’: accogliere migranti in casa, così come dare passaggi in auto o distribuire cibo può ricadere in questa definizione e quindi bastare per essere incriminati per traffico di esseri umani, reato che può costare fino a otto anni di carcere. Ma, si domanda la donna, “come si fa a non rispondere agli sos? Fino a due giorni fa c’era la neve e la notte poteva fare -10°C”, continua Agata indicando le foreste che si vedono fuori della finestra, mentre mostra un libretto del corano poggiato su uno dei letti allestiti per i profughi di passaggio. “L’ho comprato dopo aver capito che a questi ragazzi avrebbe fatto piacere pregare”.
Almeno una ventina sono passati da qui, tra i 14 e i 45 anni, provenienti da Siria, Iraq, Yemen, Congo e Sudan. Agata conferma che ora stanno bene, sono riusciti a raggiungere Varsavia oppure la Germania e l’Italia potendo fare richiesta d’asilo senza rischiare di essere respinti oltre il confine bielorusso, una sorte che spesso tocca più volte ai migranti prima di riuscire a superare la red zone.
“Sento che non facciamo nulla di male- dice ancora Agata- ma nonostante ciò vivo nel panico. È bellissima la solidarietà che i polacchi stanno dimostrando verso gli ucraini, ma qui, fare ciò che i polacchi stanno facendo per loro, significa infrangere la legge”. A oggi quasi due milioni e mezzo di ucraini hanno varcato la frontiera polacca, ottenendo la protezione umanitaria temporanea garantita dalla direttiva Ue del 2001 che consente di avere accesso a un domicilio, e quindi a un lavoro, alla sanità e alla scuola. Dopo 21 anni dalla sua istituzione, è la prima volta che il Consiglio attiva questo meccanismo di protezione per i profughi in fuga da guerre e persecuzioni.
“Qui al confine bielorusso i profughi sono poche centinaia e non si fa niente per accoglierli” osserva ancora alla Dire Wojtek Radwanski, fotoreporter che accetta con sua moglie di condividere la propria identità. È anche volontario di Klub inteligencji katolickiej (Kik), associazione cattolica che a dicembre ha subito una perquisizione nella propria sede poiché il suo aiuto ai migranti aveva “destato sospetti”. Più di recente, una volontaria dell’associazione è finita agli arresti sempre nei pressi dell’area rossa e attende oggi la decisione sulla detenzione cautelare di tre mesi chiesta dal procuratore.
“Abbiamo saputo di una famiglia afghana che è stata respinta indietro in Bielorussia- continua il fotografo, che sullo smartphone ha incollato l’adesivo di una raccolta fondi per l’emergenza Ucraina- mentre un’altra è stata accolta senza problemi perché arrivava dall’Ucraina. Tutto questo è surreale. La moglie Maria Radwanska, manager per una azienda e coordinatrice del Kik, aggiunge: “Voi giornalisti dovete raccontare quanto è diverso il trattamento riservato ai migranti non ucraini“.
Marius Kurnyta, 35 anni, è un altro volontario di Bialystok fermato a fine marzo mentre cercava di raggiungere una famiglia tra cui c’era una bambina di 40 giorni – poi accolta dagli agenti di frontiera e trasferita in un centro per migranti. Essendosi rifiutato di pagare la multa per aver infranto la zona rossa, la sua causa passerà al giudice che potrebbe imporre una sanzione più salata ma lui, che lavora nell’edilizia, ha due figli e da settembre dorme poche ore a notte, non pagherà: “Sarebbe ammettere che queste leggi sono giuste”, spiega, e aggiunge: “Ciò che fa più male è essere perseguitati, ci impediscono in tutti i modi di raggiungere i migranti. Anche coi profughi ucraini l’aiuto viene dal cuore. Ma da queste parti assume i toni dell’odio e della propaganda”.
Kurnyta chiama in causa anche le responsabilità delle autorità bielorusse, accusate da Varsavia e Bruxelles di spingere i migranti alle frontiere europee come arma di una ‘guerra ibrida’ contro l’Ue: “Quella famiglia che stavo cercando di aiutare era stata portata in una trappola- dice- perché si trovava in una zona compresa tra un fiume, una palude e la frontiera polacca. Anche volendo non avrebbe potuto tornare indietro”. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, Minsk ha chiuso un campo profughi poco distante dalla Polonia, obbligando le persone a scegliere tra i rimpatri verso Paesi ritenuti non sicuri o tentare la sorte in Polonia. Chi accetta la seconda strada “subisce violenze- afferma l’uomo- ho lo smartphone pieno di foto che i migranti mi mandano, con immagini di lividi e ferite, perché i militari bielorussi li spingono verso il confine picchiandoli. Gli rompono anche i telefoni”. E in Bielorussia non esiste più una società civile che possa mobilitarsi per assistere questa gente.
“Lì addirittura le ong e i volontari sono sistematicamente criminalizzati” denuncia Marta Gorczynska del Comitato Helsinki per i diritti umani della Polonia (Hfhr). “Siamo anche infastiditi dal comportamento delle istituzioni europee che, non agendo rispetto a quello che accade alla frontiera polacco-bielorussa, di fatto lo accettano nonostante tutto avvenga in palese violazione delle leggi. Ci aspettiamo che l’Ue protegga le persone, tutte”.