Sono, in questo momento, tra i Paesi europei di cui più si è detto, circa la loro posizione rispetto al conflitto NATO-Russia in Ucraina, per i legami che esprimono con la Russia e per le critiche a vario titolo sollevate nei confronti dell’Unione Europea in relazione alla crisi. Una posizione, tuttavia, non simmetrica tra i due Paesi: la Serbia, infatti, non è membro dell’Unione Europea, è Paese candidato all’adesione sin dal 1 marzo 2012 e, allo stato, su un complesso di 35 capitoli di negoziato, registra un totale di 22 capitoli aperti, di cui solo 2 chiusi provvisoriamente; pur non facendo propriamente parte dello spazio economico legato alla Russia, ha stipulato un accordo di libero scambio con l’Unione Economica Eurasiatica, i cui Stati membri sono Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan e Kirghizistan, entrato in vigore il 10 luglio scorso e con il quale si prevede, a regime, l’accesso a un mercato di oltre 180 milioni di persone con oltre il 90% delle merci senza dazi doganali.
Viceversa, l’Ungheria è Paese membro dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica; fa parte, sin dal 2007, dello spazio Schenghen, all’interno del quale è consentita la libera circolazione di oltre 400 milioni di cittadini UE, insieme con cittadini non UE che si trovano legalmente in territorio comunitario per turismo o motivi di studio e di lavoro, e fa parte della NATO sin dal 1999. Qui, in particolare, a proposito dei più recenti sviluppi legati al “fronte orientale”, non sono passate inosservate alcune recenti prese di posizione: anzitutto, il decreto del governo dello scorso marzo, con cui viene consentito alla forza di reazione rapida della NATO di stazionare in Ungheria e di utilizzarne lo spazio aereo per il transito, con il vincolo, tuttavia, di doversi dirigere comunque verso un altro Paese NATO prima di giungere in Ucraina, in modo da non utilizzare il territorio ungherese come “piattaforma di guerra”; e l’ancora più recente dichiarazione del segretario di Stato, Zoltán Kovács, secondo la quale «il nostro Paese è allineato sulle sanzioni, ma è evidente che questo terreno danneggerà tutte le nazioni europee. Soprattutto sull’energia, i compromessi sono impossibili, ci serve il gas dei russi».
Da una parte, dunque, un Paese UE e NATO, l’Ungheria, che tuttavia ha mantenuto rapporti con la Russia, che non di rado ha espresso posizioni critiche nei confronti delle politiche UE, e che non ha mancato, in base ai propri interessi nazionali, di porre in rilievo alcune contraddizioni rispetto all’attuale condotta comunitaria in relazione al conflitto in Ucraina, soprattutto, come si è visto, per quello che riguarda le sanzioni. Dall’altra parte, invece, la Serbia, Paese candidato ad una adesione alla UE che pare sempre più problematica e lontana e che ha più volte, convintamente, ribadito la propria intenzione di non entrare a fare parte della NATO, come confermato anche nel contesto della campagna per le elezioni parlamentari e presidenziali: secondo quanto riportato dalla TASS, nel contesto di una iniziativa elettorale a Kikinda, al confine con la Romania, il presidente serbo Aleksandar Vučić, ha ribadito che «il nostro dovere è perdonare e non dimenticare. Non dimenticare Bojana Tosić, 11 mesi, uccisa a Merdare, vicino a Kuršumlija; non dimenticare la piccola Milica Rakić, uccisa a Batajnica; e non dimenticare la piccola Sanja Milenković, uccisa a Varvarin. […] Diventeremo molto più forti di quanto non fossimo a quei tempi, quando gli irresponsabili […] ci bombardavano e conducevano una guerra di aggressione contro di noi e contro il nostro Paese», con riferimento, appunto, alla aggressione della NATO alla Jugoslavia della primavera del 1999, i 78 giorni di campagna di guerra.
Dunque, appunto, la campagna elettorale: si riaccendono i riflettori su questi due Paesi, perché entrambi impegnati, domenica scorsa, 3 aprile, in un’importante tornata. In Ungheria si tengono le elezioni parlamentari, per le quali i sondaggi della vigilia collocano Fidesz, il partito conservatore del premier Viktor Orbán, tra il 45% e il 50% dei consensi; la Coalizione democratica, di orientamento liberale, all’opposizione, tra il 15% e il 20%; i socialisti del MSZP, intorno al 5%. Lo stesso 3 aprile si svolgono, in Serbia, entrambe le competizioni, parlamentari e presidenziali, per le quali i sondaggi prevedono la vittoria della coalizione intorno al presidente uscente, Aleksandar Vučić, costituita da SNS (Partito del progresso) e SPAS (Alleanza patriottica), di ispirazione nazional-conservatrice, intorno al 50% dei consensi; mentre la coalizione di opposizione, di orientamento liberale, sarebbe intorno al 15%, e il Partito Socialista (SPS) di Ivica Dačić, intorno al 10%.
La giornata elettorale non ha registrato particolari “scossoni” e i risultati confermano le premesse della vigilia. In Ungheria, con oltre il 90% delle schede scrutinate, l’alleanza elettorale costruita intorno al partito Fidesz di Viktor Orbán ottiene il 53%, con una proiezione di 135 seggi, mentre l’alleanza delle opposizioni (Uniti per l’Ungheria) raggiunge il 35%, con una proiezione di 56 seggi; l’ultradestra del movimento Patria, una scissione a destra del movimento ultra-nazionalista Jobbik, avrebbe superato il 6%, con una proiezione di sette seggi. Confermate le previsioni della vigilia anche in Serbia, dove, sulla base del 90% circa dei seggi, la coalizione riunita attorno al SNS del presidente Vučić si attesta poco al di sotto del 44%, con la coalizione delle opposizioni ferma al 13% e il partito socialista SPS che sfiora il 12% dei consensi; più indietro gli altri partiti, la coalizione NADA intorno al 5%, l’alleanza civica Moramo intorno al 4%, il movimento radicale di destra Dveri sotto il 4%. Qui, le proiezioni assegnano alla coalizione intorno all’SNS 121 seggi, alla coalizione delle opposizioni 37 seggi, alla coalizione intorno al SPS di Ivica Dačić 32 seggi, alla lista Moramo 12 seggi.
L’affluenza è stata qui intorno al 58% e degna di nota la partecipazione al voto anche da parte dei Serbi del Kosovo, cui non è stato consentito di esercitare il proprio diritto di voto nella regione, e per i quali sono stati allestiti appositi seggi elettorali nelle città di Bujanovac, Kuršumlija, Raška e Tutin, nel sud della Serbia.