C’è un tragico precedente storico che ricorda il clima culturale e informativo che stiamo vivendo in queste settimane in Italia, nel quale il giornalismo è spesso vittima della propaganda (come denunciano anche storici corrispondenti di guerra di diverse testate da Toni Capuozzo ad Alberto Negri, tra gli altri): quello dello schiamazzo interventista alla vigilia dell’ingresso in guerra dell’Italia tra il 1914 e il 1915 che – nonostante la contrarietà degli italiani e del Parlamento – godette anche dei massicci finanziamenti che aziende produttrici di armi facevano nei confronti della stampa italiana affinché spingesse l’opinione pubblica verso l’interventismo. Sappiamo come andò a finire: oltre 16 milioni di morti complessive (“inutile strage”, fu chiamata da papa Benedetto XV. E benedetti siano i papi che condannano le guerre), con la generazione, come conseguenza diretta, del fascismo e del nazismo, il cui portato fu la “seconda guerra mondiale” con gli oltre 60 milioni di morti, i campi di sterminio, le bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki dagli statunitensi e quanto ne è conseguito con la successiva corsa agli armamenti. Oggi ripresa più che mai, insieme allo stillicidio di guerre infinite in giro per il mondo, compreso – di nuovo – il cuore dell’Europa.
Gli storici ci diranno un giorno – se sopravviveremo al passaggio di questo pericoloso varco della storia – se e quanto l’industria bellica nazionale, parte rilevante del complesso militare-industriale internazionale, stia sostenendo oggi quei media con l’elmetto che spingono verso più armi e più guerra. Ciò che sappiamo è quanto scriveva già nel 2021 l’autorevole rapporto di Trasparency Intenational sull’influenza dell’industria della difesa italiana dal quale emerge che “lo stretto rapporto fra industria della difesa e Governo italiano mette a repentaglio l’integrità e la responsabilità del processo decisionale politico”. E possiamo registrare, in questi giorni, il mostruoso balzo in avanti delle spese militari italiane, che non c’entra con la guerra in Ucraina – che ne è stato però il cinico pretesto per forzare il Parlamento e convincere la riluttante opinione pubblica – che porterà al trasferimento di circa 40 miliardi all’anno nelle casse dell’industria bellica, sottratti agli investimenti civili e sociali dello Stato.
Ma in questa irresistibile vertigine della guerra (Marco Revelli, il manifesto, 3 aprile 2022), dove sono bandite le analisi complesse, tutto si mescola e si sovrappone, come le voci di coloro che – oggi come oltre un secolo fa – possiamo definire gli “interventisti democratici”, ossia quelle che con nobili intenzioni di sostegno al governo ucraino nella legittima resistenza contro l’invasione militare russa si dicono d’accordo con l’invio di armi italiane ed occidentali, sempre più potenti, non solo fondando il proprio ragionamento sull’etica dell’intenzione anziché sull’etica della responsabilità, ma addirittura citando a loro sostegno – incredibilmente – voci della genealogia della nonviolenza, da Mohandas K. Gandhi ad Aldo Capitini ad Alex Langer, che hanno speso la propria vita per costruire esattamente “l’equivalente morale della guerra” (per citare un celebre scritto di William James). Ossia metodi e strumenti di intervento e gestione dei conflitti in cui – responsabilmente – il mezzo sia coerente con il fine. Metodi di lotta all’altezza del tempo presente e della distruttività raggiunta dalle armi nucleari, la cui minaccia è oggi più presente che mai, ma oggetto di una rimozione sopraliminare, come definita da Günther Anders, perché portatori di una distruttività troppo grande per essere perfino mentalmente rappresentata.
Stupisce che, tra gli altri, anche l’ottimo Marino Sinibaldi – ex direttore di Radio3RAI – scrivendo su Il Post (28 marzo 2022) che “la pace è la resistenza ucraina”, attacchi il “nostro pacifismo” associandolo a chi (chi?) “mette più o meno sullo stesso piano aggrediti e aggressori”, tirando per le orecchie “l’attuale presidente dell’Anpi” e spiegando ai pacifisti, bontà sua, che “bisogna intanto riconoscere che, come diceva Aldo Capitini, il fondatore del pacifismo italiano, la nonviolenza comincia dalla nonmenzogna”. E quindi bisogna armare il governo ucraino. Mentre ho qualche dubbio che Sinibaldi abbia letto la relazione del Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo al recente Congresso di Riccione, sono certo che non abbia letto, o ha del tutto dimenticato, gli scritti di Aldo Capitini. Del resto, la stessa Loredana Lipperini – scrittrice ed autorevole conduttrice del programma radiofonico Fahrenheit di Radio3RAI – si chiede “come si possa citare Capitini a proposito di armi (…) a meno di aver compreso e infine accettato e deciso di sostenere un pensiero militaresco in cui siamo scivolati mese dopo mese”. A me, a beneficio di Sinibaldi, ma soprattutto della nonmenzogna, non rimane che citare qui una delle venti Ragioni della nonviolenza di Aldo Capitini (ultimo scritto per Azione nonviolenta, rivista da lui fondata nel 1964). Ossia un brevissimo estratto dalla sua sterminata letteratura nonviolenta. Da leggere, prima di citare.
“La nonviolenza è strettamente congiunta col punto a cui è giunta la guerra, con la sua attrezzatura tecnica e le armi nucleari. L’esasperazione della ferocia e della vastità distruttiva della guerra, specialmente dopo Hiroshima, ha posto il problema di arrivare a un altro modo di condurre le lotte e la stessa difesa. Come ci si difende alle frontiere da missili che varcano i continenti e in pochi minuti distruggono città, specialmente le industrie, i civili? Si può arrischiare una tale strage e un tale avvelenamento dell’educazione delle generazioni? Dietro e dopo le soluzioni provvisorie dell’equilibrio del terrore, mentre è enorme nel mondo la fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarietà aperta dei giusti. Questo metodo non ha bisogno di armi e perciò di appoggiarsi ad una nazione con industrie capaci di darle, come sono costretti a fare i guerriglieri violenti, che usano anche i vecchi modi del terrorismo tra gli avversari e della tortura dei prigionieri”.
(Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza, Azione nonviolenta, agosto-settembre 1968)
[Articolo proposto in prima battuta a Il Post, in risposta al pezzo di Marino Sinibaldi del 28 marzo 2022 ivi citato, ma rifiutato].