Con il trascorrere dei giorni, non solo la guerra in Ucraina si mostra per quello che sono tutte le guerre – semina di odio e violenza, distruzione di vite, famiglie, umanità, cultura e natura – ma spalanca davanti ai nostri occhi il baratro nucleare, senza che si manifesti la gravitas necessaria a fermare un’escalation fino a due mesi fa impensata e poi del tutto prevedibile, man mano che diventava palese la sua natura di scontro tra superpotenze. L’incontro del segretario Onu con Putin e la riunione dei Paesi NATO nella base di Ramstein non hanno certo impresso una direzione di marcia opposta alla progressione dello scontro. Vediamo invece il proliferare di enormi interessi attorno agli apparati militari e alla produzione bellica, alla contesa di materie prime strategiche e di mercati, assieme a un’eccitazione superomistica che gioca con la pretesa di dominare la potenza tecnica di armi sempre più distruttive
Dalla guerra si esce investendo sulla pace, non finanziando la guerra. Per questo dobbiamo individuare proposte che sperimentino vie nuove, non rassegnate: stare in campo, manifestare, educare alla pace, affermare parole e simboli radicalmente altri da quelli che stanno prendendo corpo nelle menti di chi, per retoriche che guardano al passato, rischia di non vedere la semina di sofferenza, né la concretezza di uno scenario che può mettere fine alla vita civile e democratica in Europa come l’abbiamo conosciuta dai tempi della guerra fredda.
Tenendoci fuori dalle appartenenze ideologiche e sempre dalla parte delle vittime, dobbiamo chiederci non “chi può vincere” la guerra, ma come disattivarla; dobbiamo chiederci “chi possiamo salvare?”. Possiamo, dobbiamo salvare le donne, gli uomini, i bambini sottoposti a una brutale aggressione, i profughi, e anche chi, essendo russo, non è per questo responsabile. Dobbiamo salvare i territori lacerati e avvelenati, le aree attorno alle centrali nucleari civili di cui Chernobyl rappresenta il monito più terribile. Dobbiamo salvare le nostre stesse esistenze, messe a rischio da quella che Papa Francesco ha chiamato “la follia della guerra”, anche nucleare. Ma per farlo è necessario essere pronti a testimoniare per la pace – come hanno fatto migliaia di persone nella marcia Perugia-Assisi dello scorso 24 aprile – e anche a pagare un prezzo, cominciando ad adottare stili di vita e consumi energetici fondati non su energie fossili o nucleari, ma su rinnovabili a dimensione territoriale basate sulla sufficienza.
Occorre superare l’univocità della cornice geopolitica cui i governi fanno riferimento, per affermare a chiare lettere, senza ambiguità, che l’ecologia integrale è il solo orizzonte in cui i conflitti possono trovare una reale ricomposizione. Senza la percezione e la cura delle interconnessioni tra la società umana, l’insieme dei viventi, il mondo della natura e l’universo intero, ogni nuova guerra rischia di farsi globale, fino a scatenare, per una logica intrinseca, la potenza incontrollabile e incommensurabile dell’energia nucleare, rendendo irreversibile la distruzione della vita sulla Terra.
Agli schieramenti precostituiti, anteponiamo un dialogo aperto: la lotta per la supremazia tra superpotenze fa arretrare drammaticamente impegni e risorse che finalmente cominciavano a essere orientati verso politiche di giustizia sociale, partecipazione democratica, conservazione dei beni comuni, contrasto alla catastrofe climatica, fine della guerra – anch’essa tragicamente reale – che da più di un secolo stiamo muovendo contro la natura.
Mai come oggi è evidente l’urgenza di un ripensamento globale, che ci consenta di fermarci prima della catastrofe: basti pensare che il settore militare, oltre a essere per sua natura una macchina di morte, è in assoluto il maggior produttore di gas climalteranti e che ogni anno stiamo consumando l’equivalente delle risorse di due pianeti e mezzo.
Scrive Papa Francesco: “Quando cancelliamo il volto dell’altro, allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza.”
Nel tempo che ci rimane prima di una crisi irreparabile, dobbiamo riaffermare la centralità dei territori, l’inviolabilità delle vite che li abitano e rigettare i concetti strategici offensivi che anche il nostro Paese ha adottato nel quadro della NATO, costringendoci – senza mai dichiararlo – a convivere con ordigni atomici nelle basi di Ghedi Torre e Aviano. La presenza di questi armamenti, in contrasto con il Trattato di pace del 1947 e con il Trattato di Non Proliferazione del 1968, non solo è illegale, ma sta mettendo l’Italia a serio rischio di diventare un bersaglio prioritario nell’escalation della minaccia atomica, che sempre più si configura come un confronto per procura tra le due maggiori superpotenze nucleari.
E’ allora necessario chiedere, pretendere, che le nazioni non formalmente in guerra, come l’Italia e tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, operino da subito per far cessare il fuoco anziché alimentarlo e per mettere all’ordine del giorno la denuclearizzazione del mondo. Questa impostazione è evidentemente alternativa all’invio di armi ai belligeranti e all’aumento della spesa militare, così come ai continui attacchi alla nostra “casa comune”, di cui viene erosa la bellezza e la generosità – come è stato, da ultimo, nella stupefacente decisione del governo di destinare a base militare il Parco naturale di San Rossore, un’area protetta da più di quarant’anni.
Quando tutto sembra spingere verso la “follia della guerra”, diventa ancor più necessaria la radicalità di un impegno per il buon senso, per la pace, per la capacità di mitezza, anche nel linguaggio. Il disarmo mondiale, la fine delle guerre, l’uguaglianza sociale, la cura, il lavoro dignitoso e l’istruzione per tutti, la libertà di migrare, la fraternità universale, la tutela della biodiversità, la difesa del clima non sono sogni per idealisti, sono obiettivi politici tanto possibili e praticabili quanto ineludibili.