Dal punto di vista di un’ecologia integrale qualsiasi guerra, ma questa in particolare, è un passo indietro drammatico per la conversione ecologica: crea divisioni e ostilità tra coloro che sono impegnati nel combattere la crisi climatica e ambientale; produce immense quantità aggiuntive di gas di serra e la devastazione dei territori teatro dei combattimenti; fornisce pretesti al mantenimento e alla riattivazione delle fonti energetiche fossili e nucleari e dell’agricoltura industrializzata, all’aumento della produzione di armi e a una diffusa bellicosità dei media e tra la gente. Tutto ciò rinvia la transizione energetica oltre la soglia temporale dell’irreversibilità indicata dall’Ipcc: le condizioni in cui dovranno vivere le prossime generazioni, sia umane che di tutti i viventi, saranno molto più ostiche, se non insostenibili.
Le divisioni che attraversano l’opinione pubblica riguardano soprattutto l’opportunità di inviare armi per rafforzare la resistenza ucraina (qualsiasi cosa si intenda con questo termine). Poche invece le esitazioni nell’individuazione di chi è l’aggressore e chi l’aggredito.
In un confronto civile, i fautori dell’invio di armi dovrebbero chiedersi: a che pro? Per rispettare la volontà di chi resiste? Perché non si senta abbandonato? Per migliorare i termini di un accordo quando si arriverà a una tregua? O per infliggere una sonora sconfitta alle truppe russe e il “disarcionamento” di Putin (come auspica Biden)? O, addirittura, per provocare il disgregamento della Federazione russa, con il rischio di creare situazioni di ingovernabilità cento volte superiori a quelle di paesi come Libia, Iraq, Siria, Afghanistan e Yemen? Bisogna poi considerare e valutare il rischio che l’intensificazione del conflitto sfoci in una sua estensione, fino a mettere direttamente a confronto Nato e Federazione russa: entrambi con il loro arsenale nucleare. A chi poi ricorre al paragone con la lotta partigiana, ricordo, senza pretendere di confutare l’argomento, che allora essa si andava ad aggiungere a una guerra mondiale già in corso, mentre oggi estensione e intensificazione della guerra in Ucraina con l’invio di armi (ma quante?) una guerra mondiale rischiano di scatenarla.
I contrari all’invio di armi – dando per scontato che il favore all’invio di beni di soccorso e all’accoglienza dei profughi accomunino entrambi – si dovrebbero a loro volta chiedere: perché? Per un rifiuto pregiudiziale di ogni guerra e del ricorso alle armi in generale? E se sì, è un rifiuto di ordine morale o si basa sulle mutate condizioni della nostra epoca – atomica – rispetto a tutte quelle che ci hanno preceduto? Ma questo rifiuto è forse equidistanza? E la contrarietà a mandare armi significa forse chiedere al governo o alla popolazione ucraina la resa? Oppure si conta sul fatto che anche senza aiuti esterni, ma con una grossa offensiva diplomatica (che ancora non c’è) i combattenti ucraini possano mantenere nel paese uno stato di belligeranza a più bassa intensità nei confronti dell’invasore? Ma ha senso una prospettiva del genere in mancanza di una concreta e solida iniziativa di mediazione? E quale dovrebbe essere il soggetto capace di proporsi come mediatore in forme credibili e praticabili? E quali i termini di una mediazione, ovviamente sottoposti a inevitabili negoziazioni?
E poi, per entrambi, come affrontare le difficoltà materiali, destinate a moltiplicarsi, che questa guerra impone già oggi a molti di “noi”? E come sfatare il mito confindustrialgovernativo di un ritorno alla “normalità”, che continua ad avere un solo nome: “crescita”, cioè accumulazione del capitale?
Per chi vorrebbe una conversione ecologica “socialmente desiderabile”, come chiedeva Alex Langer, forse sono state sprecate, tra le tante, due occasioni che potevano “far toccare con mano” situazioni destinate a intensificarsi nel tempo. Innanzitutto, le migrazioni: il contingente arrivato in Italia e in Europa era solo una prima manifestazione di processi destinati a crescere e caratterizzare la “normalità” del futuro (tanto che la guerra in Ucraina ne ha già riversati in Europa 6 milioni, e tutti in un colpo!). Poi i rischi, i disagi e le restrizioni del covid 19 e del modo irrispettoso della democrazia con cui le autorità le hanno affrontate, anch’esse destinate a ripresentarsi in nuove forme e con nuovi contagi. Ora, restrizioni anche maggiori si ripresenteranno di fronte alla guerra, aggravate dalle sempre più frequenti conseguenze della crisi climatica.
Tutto ciò doveva, e dovrebbe, permetterci di indicare nella conversione ecologica l’unica via concreta per affrontarle: riconversione delle fabbriche di armi e degli impianti legati ai fossili, ma anche maggior sobrietà nella mobilità, nel turismo, nell’alimentazione, nel consumo di spazio, materiali, gadget, moda, ecc. Per i più svantaggiati la possibilità di sostituire consumi individuali, per lo più irraggiungibili, con servizi condivisi sostenuti dalla collettività; per molti giovani di tutte le condizioni sociali, schifati dalle prospettive di vita che vengono loro imposte, un futuro.