Le immagini del grande fiume ridotto a un rigagnolo dovrebbero smuoverci e invece nessuno -a partire dalla classe politica nazionale e locale- sta prestando attenzione. Nel frattempo il greto e gli argini vengono usati come piste da motocross. Il racconto di Paolo Pileri.
Sono stato in Po. Mai come in questo caso la frase vale alla lettera nel senso che il 28 marzo 2022 ero nel mezzo dell’alveo del grande fiume. Non in barca, a piedi. Con i miei passi ho camminato sulle acque che non ci sono più. Siccità e cambiamento climatico ci hanno consegnato un fiume sparito. Un disastro ecologico, umano, alimentare, culturale. Ma che non spaventa quanto dovrebbe.
Quei rigagnoli d’acqua che ho visto sono lacrime che scorrono su un viso martoriato da un uso del suolo insensato e irresponsabile che continuiamo a infliggere al nostro Paese. Assieme a dei colleghi del Politecnico abbiamo fatto delle riprese con un drone perché dobbiamo documentare l’impronta umana su quell’ambiente morente. Una documentazione che in pochi stanno raccogliendo, soprattutto le nostre istituzioni pubbliche alle quali mi sono rivolto nei giorni scorsi ricevendo risposte negative.
Il Po sta morendo: ci riempiamo la bocca di transizione ecologica, ma non andiamo a vedere. I nostri politici non vanno a vedere. Non si fanno accompagnare da ecologi che spiegano loro la gravità. I nostri presidenti (dalla Repubblica in giù) i nostri governatori, i nostri sindaci, soprattutto quelli che si credono importanti anche se non hanno i loro Comuni sulle sponde del fiume, non vanno a vedere. Non vanno neppure i nostri alti dirigenti pubblici. Solo l’emergenza li muove. Solo le catastrofi che conoscono li impietosiscono.
Quando il fiume esonda e rompe gli argini allora prendono l’elicottero della protezione civile e ci volano sopra, scandalizzati o presunti tali. Ma così facendo, forse non si rendono conto, confermano una visione e una sensibilità antropocentriche, tutte concentrate a piangere solo i danni alle cose umane: strade case capannoni e campi. Mentre oggi, per molti, quello che sta succedendo non è nulla: semplicemente perché non vedono nulla di antropicamente riconoscibile che viene danneggiato e non capiscono che le immagini del più grande fiume ridotto a un ruscello sono il grido del clima e l’immagine della nostra insipienza.
Immagini che devono smuoverci ma che invece neppure osserviamo. Situazioni che dovrebbero divenire una narrazione civile che chi ci governa, con umiltà, riporta a tutti impostando il nuovo corso delle cose e delle politiche. Facendo vedere a tutti che così non va, viene meno il futuro.
E invece sapete che cosa accade? La beffa oltre all’inganno: il fiume così conciato nel frattempo è diventato una pista di motocross e nessuno dice nulla. Al dolore si aggiungono le frustrate delle gomme tassellate delle moto che non solo distruggono il greto ma pure scarpate e argini. Così il suolo delle sponde collassa ancor più rapidamente e altro suolo sarà perso. Non mi vergogno a dire che davanti a un ambiente così degradato dal cambiamento climatico ovvero dagli effetti del nostro modello economico e politico, io renderei obbligatoria una visita guidata al Po per tutti coloro che hanno responsabilità di governo del territorio a qualsiasi livello. C’è un profondo crepaccio culturale che se non ci diamo da fare a colmare ci inghiottirà. Ma non basta il nostro drone e le nostre immagini, serve che si smuova chi ha responsabilità. Non sarà la natura a ucciderci, ma la nostra non voglia di ascoltarla.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro per Altreconomia è “L’intelligenza del suolo”