L’adolescenza è l’età dell’angoscia: ci si chiede qual è il senso della vita – non tanto della vita in generale, della vita degli altri, ma della propria. Che cosa ci faccio io qui? Una domanda che costituisce il lato creativo dell’esistenza umana, ma una risposta definitiva non c’è. Spesso, quella domanda, si cerca di dimenticarla: le distrazioni non mancano (e alcuni ne hanno più di altri), ma l’angoscia non rinuncia quasi mai a riaffiorare. Bisogna raggiungere una certa età perché i modi con cui la si mette a tacere si consolidino in abitudini che la ottundano. Ma niente mette al sicuro dalla sua ricomparsa, spesso con scompensi drammatici.
Ne ho patito, come credo tutti, e in maniera intensa, nella mia adolescenza, in forma solitaria e individuale e poi di nuovo, in forma collettiva e condivisa, negli anni della mia partecipazione al movimento degli studenti e poi all’incontro con gli operai di Mirafiori e di altre fabbriche sparse per l’Italia, tra la fine degli anni ‘60 e i primi ’70. Sono stati un movimento e un’epoca radicali proprio perché, prima ancora di formulare delle rivendicazioni, o di analizzare i rapporti di forza, la domanda tacita che faceva di noi un vero movimento era quella: che ci facciamo noi qui? L’adolescenza era passata per tutti e tutte, ma la sensazione di ritrovarsi proiettati o “gettati” in un contesto non abituale, non prevedibile, non come “avrebbe dovuto essere”, associava alla meraviglia della scoperta l’angoscia di scelte decisive per le nostre vite, qualsiasi strada si sia poi imboccata.
Oggi Greta Thunberg, con la sua ostentata adolescenza, la sua angoscia per le sorti dell’umanità, ma prima ancora per la sua – a che serve studiare se non ho futuro, se ci rubate il futuro? – è tornata a rendere pubblico quell’insopprimibile sentire dell’adolescenza. I suoi coetanei di tutto il mondo ne hanno colto il senso e ne hanno fatto le basi di un movimento globale. Certo, Greta sa tutto e dà lezioni a tutti sulla crisi climatica, anche se nel mondo adulto pochi la stanno a sentire. L’hanno omaggiata per più di un anno per tacitare la loro cattiva coscienza; adesso, “grazie” al covid e alla guerra, se ne possono dimenticare. Ma per i suoi coetanei, che l’angoscia la frequentano ancora, non è così. La domanda “che ci faccio io qui?” continua a incalzarli e conta più delle verità scientifiche di cui pure sono convinti cultori. Non è (solo) una domanda sul futuro. E’ soprattutto una domanda sul presente, sul proprio posto nel mondo. Per questo anche chi non ha più la loro età, né molto futuro davanti a sé, può sentirsene coinvolto: che ci faccio io qui?
Saperci sull’orlo di una catastrofe irreversibile, documentata da tutti gli scienziati del clima, non basta a far cambiar rotta ai governi: è cinquant’anni che se ne parla, trent’anni che fanno a gara nel sottrarsi agli impegni periodicamente ribaditi nelle loro inutili conferenze sul clima. Se anche solo dieci anni fa avessero presa sul serio la transizione energetica, invece di usare quel tempo per prepararsi alla guerra, oggi non si ritroverebbero a finanziare, pagandogli il gas, la guerra di Putin, e a ricoprire di armi gli ucraini perché lo combattano. E ora la guerra in Ucraina – quelle in altri paesi non le avevano mai nemmeno prese in considerazione – offre loro il destro per fare marcia indietro su tutto quello che avevano finto di accettare: la fine di carbone, petrolio, metano, nucleare, OGM, fertilizzanti e pesticidi sintetici, ecocidio, corsa alle armi, ingiustizie; le vere poste in gioco di questo tornante epocale.
E cercano di coinvolgere tutti, e soprattutto i giovani, in queste loro scelte: il problema è vincere questa guerra, non quello di fermare la crisi climatica, la distruzione dell’ambiente, l’aumento delle diseguaglianze. Quello verrà dopo… Lo strumento principale di questa operazione è l’esibizione delle sofferenze indicibili della guerra, a cui non si può essere indifferenti, ma anche la paura di perdere il poco o il tanto che si ha. La risposta che meritano non può che nascere da un’autentica crisi adolescenziale che faccia riaffiorare tra tutte e tutti l’angoscia di un interrogativo radicale sul nostro posto nel mondo. Perché, mano a mano che i problemi messi al centro del discorso pubblico dai media si succedono e si aggravano – dalle migrazioni al covid, dal covid alla guerra, dalla guerra alla stagnazione – diventa sempre più chiaro che si tratta di altrettante facce – a cui non si può correre dietro una a una – di un problema molto più generale: il fatto che le strutture sociali che nessuno di noi si è dato, ma che siamo tutti e tutte costretti a subire, ci stanno avvicinando al capolinea. Che prima o dopo ci costringerà, quale che sia il genere, l’età o la collocazione sociale, a tornare a chiederci: che ci faccio io qui? Solo una grande crisi adolescenziale del genere ci può portare a mettere al centro del nostro agire l’impegno a perseguire una conversione ecologica radicale.