ll desolante inverno che abbiamo quasi del tutto attraversato deve aver fatto riflettere parecchi di noi. O almeno lo speriamo. Perché al di là della sconsolante tristezza di guardarsi intorno e vedere solamente boschi spogli e secchi e lugubri strisce bianche di neve artificiale spolverata con grande dispendio di acqua ed energia per accontentare qualche sciatore ostinato, la stagione delle precipitazioni – nevose e piovose – ha lasciato quest’anno la Terra decisamente in affanno. A volte, pur con un pensiero non esattamente scientifico, ma lecito, viene da pensare che l’aridità del suolo rifletta quella dei nostri animi disattenti e indifferenti a ciò che sta succedendo al Pianeta, in gran parte per nostra stessa responsabilità.
Non si tratta purtroppo di una questione solo alpina. Anche se non risulta di immediata intuizione, anche il continente africano condivide con altre latitudini il problema, per esempio, della perdita dei ghiacciai, che rischia di diventare realtà già entro il 2040 come conseguenza dei cambiamenti climatici. Che non è una dicitura generica, vaga, evanescente: i cambiamenti climatici sono la desertificazione, l’erosione costiera, i bacini lacustri che si vanno via via prosciugando, l’innalzamento del livello del mare, eventi meteorologici estremi e solo alcune delle manifestazioni più evidenti di un riscaldamento globale che sta letteralmente sciogliendo il Pianeta.
Un problema che appare difficilmente risolvibile, e comunque con costi esorbitanti come quelli che dovrebbero essere sostenuti per interventi di installazione di infrastrutture idrometeorologiche, che richiederebbero comunque investimenti solleciti e lungimiranti. Dal Monte Kilimangiaro al monte Kenya al monte Rwenzori tutta l’Africa centrale dei ghiacciai e dei nevai corre il serio pericolo di sparire. E non lo dicono complottisti da quattro soldi, cui purtroppo di questi tempi siamo fin troppo abituati a dar credito. Lo dice un allarme dell’OMM, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che insieme ad altre agenzie (Commissione dell’Unione Africana, Commissione Economica Africana – ECA, uffici scientifici internazionali e regionali e agenzie competenti delle Nazioni Unite) ha stilato un report proprio su questo scenario mettendo nero su bianco da un lato la preoccupazione per la perdita inestimabile di uno dei patrimoni naturalistici tra i più variegati a livello planetario, dall’altro l’allerta per le conseguenze di breve periodo per la popolazione locale.
Quella africana è infatti tra le popolazioni più colpite dall’emergenza climatica (si parla di 118 milioni di persone estremamente povere, che saranno per prime esposte alle conseguenze di questi cambiamenti), con un tasso di riscaldamento molto alto sia rispetto agli altri continenti sia rispetto alle emissioni globali a cui contribuisce (solo il 4% a livello mondiale).
Come anche da queste pagine abbiamo più volte segnalato – e l’infografica del report lo mette in chiaro senza possibilità di fraintendimento – si tratta di cambiamenti irreversibili, drammatici, che necessitano, di pari passo con la ripresa dalla pandemia, un miglioramento della resilienza climatica, urgente tanto quando lo sviluppo e il trasferimento di tecnologie e il potenziamento dei sistemi di monitoraggio del clima – come ha sostenuto il prof. Petteri Taalas, segretario generale dell’OMM.
Nonostante l’indagine sia stata resa pubblica a pochi giorni dalla COP26 di Glasgow, non sembra che il problema risulti prioritario nell’inversione di rotta radicale che sarebbe richiesta per mettere un freno non solo alla distruzione del patrimonio ambientale del continente, ma anche a quello umano. E come ha evidenziato con forza l’attivista ugandese Vanessa Nakate, quando questi disastri saranno irrimediabilmente innescati, le migrazioni climatiche diventeranno ancora più consistenti e l’estinzione di numerose specie sarà una realtà – chi pagherà? Chi rimedierà, se sarà ancora possibile pensare di poterlo fare?