Tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni devono combattere e non potranno lasciare il paese.
Questo è un comando che richiama ubbidienza. Ubbidire! Che parola! Sembra quella sentita e osannata dai nostri nonni e genitori, quando ci raccontavano del modo in cui sono cresciuti loro! Eppure le parole ubbidire e punire esistono e sono state così potentemente rafforzate negli ultimi anni che non le abbiamo viste – queste parole hanno solo cambiato vestito che le ha rese più belle e presentabili, parlando un linguaggio più vicino al nostro, confondendoci.
Sono tante le parole che ci ruotano intorno, ci attraversano, ci abitano, diventate quasi normali quando normali non lo sono. Eppure in qualche modo le riconosciamo perché hanno quel “senso comune” che viene assimilato e “accettato”. Accettato in modo passivo, che ci coinvolge ma non attiva le sfere critiche del pensiero.
Nel “comando” iniziale si parla di uomini, senza ruoli personali, storie, memorie, sogni, aspirazioni, atteggiamenti, modi di essere. Non sappiamo chi c’è dietro e accanto a questi uomini, non ne conosciamo nulla, non sappiamo i loro percorsi ne le aspirazioni che abitano i loro esseri.
Non sappiamo se sono timidi o sfacciati, se sono quelli che si mettono in prima fila o se a loro piace osservare le cose un po’ da lontano prima di avvicinarsi. Non sappiamo cosa pensano di quello che gli succede intorno, non sappiamo cosa sentiranno quando un arma gli verrà messa tra le mani, o il tipo di disperazione che provano negli occhi e nel petto.
Un comando del genere non lascia spazio alla soggettività figuriamoci all’emotività. Mette questi uomini tutti lì indistintamente su un piano, che non permette di vedere ne le loro ‘altezze’ intense anche come manifestazione visibile di ciò che sono ne le loro profondità più intime.
È un comando che parla ad un uomo svuotato un po’ impietrito – come se essere uomini maschi significasse essere pronti ad abbracciare un arma e usarla. Usarla per difendere, difendersi, come minaccia, come reazione, come scudo, per intimidire, per punire. Per fare la regola di “occhio per occhio dente per dente” e cose simili.
Ma andiamo a fondo, quanti sono gli uomini che oggi si rivedono in questi concetti associati spesso all’eroismo del “maschio”? Magari ci sono magari no, può essere un scelta. Ma il divieto di lasciare il paese per i maschi in età da combattimento non da spazio libero alla scelta.
Ecco allora che in una società maschile dominante essere “maschi” può essere una condanna. È lo è sicuramente per coloro che hanno bilanciato nelle loro vite il maschile e il femminile. Che sono usciti fuori dai luoghi comuni, dalle parole e dagli atteggiamenti che hanno un genere selezionato: maschile e femminile.
Se dovessimo dare un genere e una tonalità alle parole ubbidienza, punizione, corazza, armatura sì sicuramente penseremmo al maschile. Ubbidire richiama più il rigore dell’uomo che l’emotività della donna, punire è più l’assoggettare virile del maschio che un valorizzare femminile che a volte tentenna. Anche nelle immagini delle trattative e di tutti questi uomini seduti attorno ai tavoli per trovare soluzioni non si vedono donne.
C’è un simbolo cinese molto conosciuto che mi aiuterà a spiegarmi meglio. È il Tao che significa “la madre” composto da due forze, due energie complementari, lo yin e lo yang presenti in tutta la natura, non solo negli esseri viventi, ma anche negli oggetti inanimati e nella materia.
Il Tao unisce il trascendentale all’immanente, in due polarità che devono bilanciarsi per divenire armoniose. Lo yin rappresenta l’energia della luna – il femminile; lo yang rappresenta l’energia del sole – il maschile, in un movimento e flusso inesauribile e continuo. Un universo dinamico in perenne divenire, descritto perfettamente nel Il libro dei mutamenti e nell’Iching. In realtà la versione che molti conoscono “nel male c’è sempre un po’ di bene e nel bene c’è sempre un po’ di male” non raffigura bene la potenza del simbolo, che secondo il Taoismo non ha connotazione morale. Il simbolo chiaramente ci mostra come nello yin c’è sempre una parte yang e come nello yang c’è sempre una parte yin. “Che tu sia una donna o un uomo, la tua vera umanità verrà alla Luce solo quando le qualità femminili e maschili in te saranno equilibrate” (Amma Amritanandamayi).
Nel comando iniziale oltre al retaggio di genere c’è un discorso generazionale su cui fermarsi a pensare. Insieme raccontano un momento buio, non solo spazio-temporale e sociale, ma esistenziale.
Uomini dai 18 ai 60 anni. Ragazzi, giovani, adulti, maturi, ma non anziani. Certo che definire un ragazzo di 18 anni un uomo in grado di combattere e difendere è una bella sfida. Forse non ha neanche finito la maturità e si ritrova senza scelta a non poter abbandonare il suo paese perché deve difendere la sua patria. Forse qualcuno cerca di scappare, di camuffarsi tra le auto che corrono via, qualcuno è nascosto da settimane sottoterra. Chissà questi uomini cosa pensano della patria e di questa guerra.
Don Milani scriveva: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Ne “L’obbedienza non è più una virtù” (1965) Don Milani tra le altre cose diceva “davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima. Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano”.
Ci sono situazioni complesse in cui si possono intuitivamente trovare le corresponsabilità dirette e indirette che non riguardano una sola persona. Come nel caso delle armi nucleari, su cui si dibatte molto oggi, sono coinvolti: politici, scienziati, tecnici, operai, militari. Tantissime persone, non solo l’ultima che le attiva.
“L’obbedienza non è una virtù: non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è obbedirla. Posso solo dire loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando, invece, vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
La parola Patria è stata usata male molte volte “spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei“.
Anche Don Milani, il ‘prete rosso’ era stato allontanato per le sue idee, confinato a Barbiana dove iniziò un’esperienza pedagogica ed educativa unica, insegnando ai suoi ragazzi prima di ogni altra cosa a reagire all’ingiustizia. Nella scuola di Barbiana due ore al giorno erano dedicate alla formazione della coscienza critica partendo dalla lettura dei giornali, per costruire una memoria storica che non sempre coincideva con quella della massa, attraverso l’uso non violento della parola.
Sulla porta della scuola di Barbiana c’è una scritta che si legge entrando ‘I care’, ovvero m’interessa, mi sta a cuore. E ce n’è anche un’altra, il componimento di un bambino cubano che dice ‘Yo escribo porque me gusta estudiar. El nino que no estudia non es buen revolucionario’. Io studio perché mi piace studiare. Il ragazzo che non studia non è un buon rivoluzionario.
Non si può restare indifferenti o neutrali davanti alle ingiustizie sociali, anche perché la neutralità coincide quasi sempre con la conservazione delle logiche dominanti e che spesso portano a fare valutazioni frettolose in cui ci si abitua a intendere e si disabilità a riflettere.
Mentre il mondo cerca di dividerci, confonderci, schierarci con le bandiere non farlo è una piccola rivoluzione. Restare lì, osservare, informarsi e risvegliare il senso critico, senza dimenticare che la pace non ha genere e senza dare per scontato che gli uomini solo perché ‘maschi’ e perché cittadini di una nazione debbano voler partecipare a qualcosa a cui non credono o vogliono.
Sarebbe importante se fra gli aiuti umanitari, l’accoglienza delle madri e dei bambini, la solidarietà tutta ci fosse più attenzione per il dramma di questi uomini.
«Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Don Milani