Benedetta Piola Caselli, collaboratrice di Pressenza, si trova a Leopoli come giornalista e osservatrice neutrale.
Cosa ti ha spinta a Leopoli?
È stata una decisione graduale. All’inizio il conflitto non mi aveva particolarmente interessata, ma pian piano mi sono resa conto che i media stavano raccontando i fatti in modo evidentemente falso e totalmente uniforme. Ci sono stati fatti eclatanti, come il TG2 che fa un servizio intitolato “pioggia di fuoco su Kiev” e mostra le immagini un videogioco, o la produzione di foto false, e altri più banali come i corrispondenti di guerra bardati di elmetto e giacchetto antiproiettile mentre dietro passano le vecchiette con la spesa, ma tutti sono accomunate da una cosa: il senso di legittimità nel passare una narrazione artefatta. Ho cominciato a chiedermi: “come è possibile”? Poi: “perché”? E infine: “come se ne esce”? L’unica possibilità era fornire una informazione veritiera direttamente dal campo, quindi sono partita.
Com’è la situazione delle persone?
Io posso parlare dei luoghi che ho visto, vale a dire Cernauti verso il confine rumeno e Leopoli, dove mi trovo ora. Se Cernauti è una cittadina sconosciuta agli italiani, su Leopoli si sono dette le cose più strane, cercando di dipingerla come una città in guerra. Non è così. Il conflitto ad oggi è fortemente localizzato in alcune aree specifiche; nelle altre, la mia impressione è che la vita continui senza grandi cambiamenti. Ad esempio, a Leopoli non c’è controllo militare, si accede alla città direttamente con il treno, non ci sono le “barricate” descritte da alcuni giornalisti ma dei check point sulle strade; i bambini vanno a scuola, gli adulti al lavoro, si trova di tutto in città, nei caffè si mangiano ottime torte. Certo, essendo vicina al confine con la Polonia ci sono molti profughi, ma niente neanche lontanamente paragonabile a quello che ci hanno mostrato i media. Una cosa soprattutto mi ha colpita: mentre entravo in treno dalla Polonia, ho viaggiato con famiglie ucraine – bambini ed anziani al seguito – che ritornavano a casa. Se si fossero sentiti in pericolo di vita, non credo lo avrebbero fatto.
Quale è stata la cosa che ti ha colpito di più?
Questa: io avevo capito che c’era una mobilitazione generale di tutti gli uomini dai 18 ai 59 anni, e l’avevo immaginata come accadeva da noi, con gli uomini reclutati e via via mandati verso il fronte, oppure inquadrati per la difesa delle città. Arrivata a Leopoli nessuno sembrava essere partito per la guerra. Ci ho messo un po’ a capire che la situazione è molto diversa da come ce la dipingono i media italiani: gli eserciti che si combattono sono entrambi professionali. Quello ucraino è anche affiancato dalla Legione Straniera, cioè un battaglione composto da persone di tutto il mondo che vogliono difendere il paese, oltre ai volontari. Nessuno che non voglia è stato coscritto. Questo cambia la narrazione: eppure è pieno di servizi sulle mamme straziate dal dolore per avere il figlio diciottenne al fronte.
In guerra la notizia diventa spesso propaganda, sta succedendo?
Questo conflitto è, principalmente, un conflitto di informazione. Su entrambi i lati si gioca di comunicazione; su entrambi i lati viene applicata la censura delle notizie non conformi alla linea mainstream. Che accada in Russia e in Ucraina è normale; che avvenga in Italia è inquietante. Quello che stupisce da noi è come l’opinione pubblica confonda verità e finzione, non riuscendo a sviluppare un pensiero critico neanche di fronte a smentite palesi. La storia del Teatro di Mariupol è indicativa. Dopo avere detto e ridetto che sotto le macerie c’erano centinaia di persone, non si è avuta neanche una vittima apparentemente perché le persone non erano lì. O ancora bisogna interrogarsi sul tempismo di certe notizie. Oggi tutti ribattono la storia del vecchino 96 enne sopravvissuto alla shoa e morto in un bombardamento. Ma perché? Perché è tornata virale la foto del battaglione Azov con la croce uncinata, che loro stessi hanno diffuso nel canale telegram del battaglione? È un ping-pong che riguarda le affermazioni sulla presunta de-nazificazione dell’Ucraina e la corrispondente risposta che in Ucraina i nazisti non ci sono. Nulla di strano, ma il fruitore della notizia deve saperlo.
La guerra sta radicalizzando le posizioni?
Si ed è normale, come tutti i conflitti. Quello che non è normale è il grado di pathos che si vuole artatamente sviluppare in questo caso – che peraltro non ci riguarda direttamente – e che va a sommarsi con la tendenza italiana di condannare senza contraddittorio. Vale a dire che, nel nostro paese, le coscienze agitate impediscono di avere un confronto ragionevole sugli elementi di fatto, immediatamente demonizzando l’avversario: non sei della mia idea? Allora sei il nemico e devi essere tacitato e, possibilmente, distrutto.
Perché tutta questa agitazione sull’Ucraina?
Più studio il comportamento dei media e più mi sembra un modo per preparare l’opinione pubblica ad una guerra – che non sarà questa, presumibilmente, ma che verrà presto. Il discorso bellicista sta già passando, basti pensare che, nella confusione dei proclami di solidarietà all’Ucraina, le spese militari sono passate al 2% del PIL. È un fatto gravissimo, che avrebbe dovuto far sollevare gli animi, e che invece è stato accolto nell’indifferenza generale.