La guerra in Ucraina sta diventando a casa nostra una vera e propria caccia alle streghe, una ricerca paranoica del nemico infiltrato. Dall’allontanamento degli atleti russi dalle competizioni sportive fino al ridicolo delle lezioni su Dostoevskij sospese alla Bicocca. Valery Gersiev, direttore d’orchestra russo, allontanato dalla Scala perché ritenuto putiniano, così come Alexander Gronsky cancellato dal festival della fotografia europea di Reggio Emilia, anche se nessuno può accusarlo di essere schierato col regime, visto che nel frattempo è stato arrestato a Mosca per avere partecipato ad una manifestazione in favore della pace.
La logica è quella della guerra totale, della demonizzazione del nemico visto come il male assoluto che deve essere estirpato e cancellato per la sopravvivenza della nostra civiltà occidentale. Lo stesso fa Putin dall’altra parte della barricata, mettendo in discussione l’esistenza stessa dell’Ucraina, in quanto a suo dire storicamente parte della Russia, e reprimendo ogni dissenso interno come complicità col nemico, e quindi con quel male che va combattuto con ogni mezzo.
Sarà bene sottolineare che in passato non tutte le guerre assumevano il carattere della “guerra santa” per la assoluta negazione e cancellazione del nemico. Quando Von Clausewitz definiva la guerra come “la continuazione della politica con altri mezzi”, attribuiva evidentemente ai conflitti militari un carattere di eccezionalità che andava superato col ritorno alla politica, intesa come l’arte del possibile e della mediazione degli interessi in campo. Questa logica della guerra, come strumento estremo per la ricomposizione dei conflitti, ha caratterizzato la storia dell’Europa dal medioevo fino alla modernità. La guerra Santa come scontro di civiltà, fondato sul rapporto di reciproca e assoluta negazione tra i contendenti, rappresentava piuttosto l’eccezione, materializzatasi, nel lontano passato, concretamente nelle crociate e nella lotta all’infedele.
Il bisogno di trovare sempre una giustificazione “forte” alla guerra sta oggi paradossalmente proprio nella sua crescente inaccettabilità rispetto al comune sentire. Più la guerra diventa qualcosa di abnorme e di disumano nella coscienza dell’uomo comune e del cittadino medio, più totalizzanti, assoluti e senza spazi di mediazione di alcun tipo, devono essere i motivi che cercano di giustificarla. Ogni guerra, per potere sperare di compattare i fronti, coinvolgendo una umanità che sempre più disprezza le armi, deve semplicemente fare apparire il nemico come l’affermazione del disumano.
Tutte le guerre contemporanee assumono dunque i caratteri della guerra santa e dello scontro totale. Ma non basta! Le guerre del passato, dalle guerre dinastiche e per la difesa di interessi particolari, alle crociate contro gli infedeli, fino alle guerre coloniali per “portare la civiltà” ai primitivi, le guerre insomma, praticamente nella loro totalità, erano fondamentalmente guerre tra eserciti. Le popolazioni civili erano costrette a subirne le catastrofiche conseguenze, ma in genere venivano poco coinvolte nelle motivazioni del contendere. Con il progressivo affermarsi della modernità e della società di massa, il coinvolgimento delle moltitudini nella ideologizzazione dei conflitti è divenuto fondamentale. Le guerre moderne sono concepite come “guerre totali”, combattute “a furor di popolo”, e chi non ci sta è un traditore. Una pratica di coinvolgimento di massa nella guerra che nasce nel cuore dell’Europa, durante il primo conflitto mondiale, quando, svanita l’illusione della guerra lampo, i governi dovettero fare i conti con i malumori popolari in quello che venne definito il “fronte interno”. Da allora l’ideologizzazione della guerra è divenuta sempre più una esigenza pressante ed essenziale, non solo in occidente, ma a livello globale.
Uno degli effetti più gravi della “guerra totale”, non solo nelle dinamiche del suo farsi, ma anche sul lungo periodo, è l’impoverimento e l’imbarbarimento di valori, spesso storicamente significativi e “progressivi”, che vengono invece letti in senso identitario ed escludente per giustificare l’uso delle armi. Non sempre è così! Non è per esempio il caso del nazismo e dell’affermazione della superiorità della razza ariana, che non può che essere radicalmente condannata. Ma non v’è dubbio che il cristianesimo così come concepito nella crociate, o l’islam dei fondamentalisti, sono letture fortemente “restrittive” e strumentalizzanti che fanno un grave torto a grandi religioni il cui portato storico, sociale e culturale, comunque la si pensi, è ben più significativo e complesso.
In sostanza il pericolo delle guerre non sta solo nelle distruzioni materiali, ma anche nell’involuzione culturale e nel deteriorarsi delle relazioni umane a livello globale. Il mito della “grande Russia” che anima la politica imperiale di Putin è un attentato alla universalità dello straordinario patrimonio storico e culturale di quel paese. Allo stesso modo, un simile tradimento della storia sta nella retorica della difesa dei valori occidentali, che in un passato recente è arrivata anche al paradosso di giustificare le guerre d’aggressione con l’assurda pretesa della “esportazione della democrazia”, e che nelle situazioni di reale o (più spesso) presunto pericolo, pensa di difendere il nostro mondo con un maccartismo ottuso, autoritario e negatore di qualunque reale diritto della persona e delle genti. Il contrario insomma di quei valori che a parole si dice di volere salvaguardare.
Contro le armi e contro la “costruzione” del nemico, solo un grande movimento pacifista che scuota insieme l’Occidente e la Russia in un abbraccio solidarista, può realizzare “l’utopia” di fermare la guerra. A differenza della guerra che ha bisogno di mimetizzarsi, di inventare motivazioni, scopi surrettizi e identità chiuse e parziali, la pace è al contrario un valore in sé, che necessita però di un grande sforzo di consapevolezza e di mobilitazione di massa per affermarsi in forza della propria autoevidenza.