Il giornalismo embedded sembra essere il paradigma di informazione di guerra veicolata dai media occidentali, ma non solo: l’informazione mainstream è fatta di incertezze, profonde lacune e faziosità volta alla categorizzazione moralistica in “buoni” e “cattivi”. La Guerra in Ucraina porta con se delle importanti dinamiche geopolitiche di ridefinizione imperialista dei blocchi con delle implicazioni che vanno dal ruolo di Israele (esterne) all’attuale situazione di repressione e persecuzione del dissenso e del giornalismo indipendente da parte del governo di destra guidato da Zelensky. Di questo e molto altro ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.
Quale tipo di informazione abbiamo attualmente dall’Ucraina? Gli inviati del mainstream coprono tutti gli avvenimenti?
Questa è sicuramente la guerra più “social” vista finora, ma a questa sovraesposizione non corrisponde, purtroppo, una accuratezza delle informazioni. Direi esattamente il contrario. Si assiste a un processo di spettacolarizzazione evidente, con foto e video di provenienza non accertata; notizie date con grande clamore e poi smentite, creazione a tavolino di miti ed eroi che probabilmente non sono neanche mai esistiti.
Mentre in Italia il giornalismo mainstream fa molta fatica ad ammettere questo problema tecnico – ovvero la mancanza di fonti, anche dovuta al fatto che i combattimenti veri stanno accadendo in zone in cui non sono materialmente presenti inviati – all’estero si pubblicano approfondite inchieste su questa impossibilità di produrre una narrazione autentica.
Il New York Times, per esempio, pubblica il 3 marzo un lungo articolo in cui si mette in discussione il “Fantasma di Kyev”, questo fantomatico pilota ucraino che avrebbe abbattuto da solo diversi caccia russi. Il video in cui si mostravano le sue prodezze è stato condiviso sul canale Telegram ufficiale dei servizi di sicurezza ucraini, seguito da oltre 700.000 utenti, e ha oltre 9 milioni di visualizzazioni su Twitter. L’hashtag #ghostofkyiv ha raggiunto oltre 200 milioni di visualizzazioni. “C’è solo un problema”, dicono gli autori dell’articolo: “Il Fantasma di Kyev potrebbe essere un mito”.
Infatti, come spiega il NYT, uno dei video diventati virali era preso da un simulatore di combat flight caricato su YouTube, mentre la foto che dimostrerebbe l’esistenza del prode pilota proveniva da un post pubblicato su Twitter nel 2019 dal Ministero della Difesa ucraino.
La stampa italiana, da parte sua, non fa smentite ufficiali e non porge le sue scuse ai lettori, come prevede il codice deontologico, neanche in presenza di ricostruzioni fallaci evidenti, come la foto pubblicata in prima pagina su La Stampa che è stata al centro di numerose polemiche di recente. Nella foto, un uomo anziano, circondato da cadaveri mutilati, si copre il viso inorridito. Il titolo, a tutta pagina, è “La Carneficina” e tutta la narrazione è orientata a denunciare i crimini dei russi. Peccato che la foto sia stata invece scattata a Donetsk e che i cadaveri siano proprio di quegli appartenenti alla minoranza russofona che sono stati dimenticati da anni e che ora vengono addirittura strumentalizzati.
Il problema vero non è tanto che vi siano due opposte propagande di guerra, questo accade in ogni conflitto, quanto che chi dovrebbe svolgere il compito di selezionare fonti e informazioni scelga invece di adottare il punto di vista di una sola propaganda e spacciarla come realtà assoluta. Oltre a essere deontologicamente scorretto, credo sia anche poco rispettoso nei confronti di tutte le vittime del conflitto.
Vi è inoltre l’aggravante che dal 2014, in Ucraina, il giornalismo indipendente viene represso. Come è la situazione attuale?
La libertà di stampa in Ucraina era già fortemente limitata prima dell’invasione russa il 24 febbraio scorso. Secondo il Resource Centre on Media Freedom in Europe, l’Ucraina era uno dei posti più pericolosi per chi intendesse svolgere la professione giornalistica.
Il Berkut, le forze speciali ucraine, sono state responsabili di terribili atti di violenza contro i giornalisti negli ultimi otto anni, con pestaggi, rapimenti, arresti e intimidazioni di varia natura. Esistono svariati rapporti che lo denunciano.
La situazione non è migliorata quando Zelensky è salito al potere, nonostante le speranze da parte delle associazioni di settore. Lo scorso gennaio, Sergiy Tomilenko, direttore dell’Unione nazionale dei giornalisti ucraini, denunciava le limitazioni alla libertà di stampa dalle pagine del Kyiv Independent. Nell’articolo, si spiegava come una relativa pluralità dei mezzi di informazione non corrispondesse a una effettiva indipendenza – in quanto gli oligarchi ucraini avevano acquisito tutte le pubblicazioni e i canali televisivi – e si lamentava la mancanza di riforme promesse da Zelensky e mai attuate.
Anzi, nel 2021 c’è stata una stretta sui canali considerati filorussi, vicini al leader dell’opposizione Viktor Medvedchuk, che sono stati messi al bando.
Attualmente, i giornalisti sono purtroppo esposti alla violenza della guerra senza esclusione di colpi da entrambi gli schieramenti. Penso che ogni giornalista dovrebbe unirsi all’appello di Reporters Without Borders che invoca maggiori misure di protezione nei confronti dei reporter che stanno cercando di coprire il conflitto.
Con questa guerra vi è un’attuale ridefinizione dei blocchi?
L’impressione è che questa non sia una guerra di occupazione in senso classico o di estensione territoriale tout court, quanto una guerra per la ridefinizione dell’egemonia e del controllo. E per inciso, è per questo che, realisticamente, il rischio di un coinvolgimento di potenze a livello globale è così elevato e andrebbe in ogni modo scongiurato. Di sicuro, si può dire ultimata la spinta del monopolio statunitense che aveva seguito il crollo dell’Unione Sovietica. Quella della “fine della storia” si è rivelata una mera illusione.
In questi anni, nuove realtà stanno emergendo come possibili superpotenze. In primis, la Cina, che mira anche in queste ore a rafforzare l’immagine della potenza ragionevole, lucida, non predatoria e non impositiva, che ha un ruolo sempre più forte nel sud del mondo e che ha costruito una rete di alleanze significative.
Poi la Russia, che ha giocato un ruolo determinante nel Medio Oriente e che detiene un controllo anche di natura paramilitare in alcune nazioni africane, garantendo “sicurezza”, come in Mali o nella Repubblica Centrafricana. Intorno a questi poli – che seppure non siano ancora uniti in un’alleanza formale sono sicuramente legati da una strategia a lungo termine – si sono poi raggruppate altre realtà, in modo più o meno diretto.
Pensiamo, ad esempio, al Venezuela Bolivariano, che oggi gli Stati Uniti corteggiano per il petrolio dopo aver, di fatto, incoraggiato un colpo di Stato e contribuito a ridurre la popolazione alla fame imponendo sanzioni durissime. In quel momento, la Russia giocò un ruolo determinante, con l’invio di truppe e mezzi, nonché con azioni mirate a salvarne, per quanto possibile, l’economia. Oggi, Caracas si schiera apertamente con Mosca ed esprime il suo “pieno sostegno”, mentre Washington cerca di promettere un “alleggerimento di quelle sanzioni” con un voltafaccia che ha dell’incredibile. D’altra parte, gli Stati Uniti non possono permettersi di rinunciare alla possibilità del petrolio venezuelano, ora che la situazione appare tesa anche con gli storici alleati dell’Arabia Saudita.
In una recente intervista con The Atlantic, il principe saudito Mohammed bin Salman ha aperto persino alla possibilità di una ‘coesistenza’ con l’Iran, facendo saltare il meccanismo di polarizzazione estrema della regione mediorentale che aveva caratterizzato, ad esempio, l’Amministrazione statunitense di Donald Trump.
Come si sta muovendo Israele? Come vedi il suo ruolo di possibile intermediario nelle trattative di pace? Il bluewashing israeliano rimane una strategia rigenerativa per la sua immagine pubblica?
A mio avviso, la questione è ancora più profonda. Per Israele, giocarsi un ruolo da equilibrista in questo mondo in profondo mutamento è una questione di sopravvivenza. Non dimentichiamo che l’esistenza dello Stato ebraico viene garantita, da sempre, dalla ‘comunità internazionale’ così come noi la conosciamo (ovvero gli Stati Uniti e i loro alleati) perché Israele costituisce un avamposto occidentale in Medio Oriente.
È in questo contesto che si configurano l’atteggiamento di protezione e la possibilità per Tel Aviv di macchiarsi di continue violazioni del diritto umano e internazionale senza conseguenze.
Nel quadro della regione mediorentale che sembrava delinearsi fino a qualche mese fa, quello dei cosiddetti ‘Accordi di Abramo’, Israele andava ad assumere un ruolo fondamentale proprio in considerazione di quella estrema polarizzazione, che vedeva da una parte Teheran e da una parte i suoi avversari. Se quel quadro muta, mutano anche il ruolo strategico di Tel Aviv e la sua capacità di esistere in un quadro mutato.
Pertanto, è indubbio che la hasbara israeliana sia al lavoro per fornire un’immagine ineccepibile e per nascondere gli ultimi colpi inferti a Israele, come il dettagliato report di Amnesty International che lo definisce uno stato di apartheid, ma è sicuramente vero che i timori di Tel Aviv sono ancora più profondi, in questa fase.
Da un punto di vista strategico, adesso Israele tenta di ottenere il massimo in termini di crescita demografica, con l’accoglimento di un numero massiccio di profughi di religione ebraica. Il mito della aliyha, del “ritorno” simbolico e rituale, ha molto poco a che fare con la religione e il rito e molto a che fare con il progetto coloniale che ha sempre ispirato Israele. Dopo la prima massiccia immigrazione che ha portato alla fondazione violenta dello stato, abbiamo assistito ad altre importanti ondate migratorie, come quella che seguì il crollo dell’Unione Sovietica, ad esempio. I profughi di religione ebraica, ce lo insegna la storia, andranno a rimpinguare le fila dei coloni illegali che sottraggono terra, risorse e diritti alla popolazione palestinese, in violazione del diritto internazionale.
Ultimamente l’Ucraina viene presa come “baluardo della democrazia”. Puo’ definirsi democrazia un Paese che mette al bando 11 partiti politici, la maggior parte aderente alla sinistra radicale è progressista?
Diciamo che è il concetto stesso di “baluardo di democrazia” in Occidente che, oltre a essere ampiamente sopravvalutato, viene strumentalizzato per definire, di volta in volta, i Paesi allineati agli interessi della cosiddetta “comunità internazionale” (vedasi sopra, Stati Uniti e loro alleati).
Anche Israele viene definito l’unica democrazia in Medio Oriente, per tornare su quell’argomento, nonostante da decenni imponga una crudele occupazione militare e discrimini attraverso un complesso sistema di normative e leggi la popolazione palestinese in base a ragioni etniche.
Volodymyr Zelensky è diventato presidente con un’ampia maggioranza, oltre il 70% dei voti, ma non dobbiamo dimenticare che non si è votato in Crimea né nel Donbass. Già prima del conflitto, il ranking dell’Ucraina in termini di principi democratici, attribuito dal Freedom in the World 2021 Report, era di 60 su 100, e questo avveniva quando solo il Partito Comunista era messo al bando ufficialmente.
Tutto questo, senza tenere conto dei gruppi paramilitari che operavano nel Paese. Agli inizi di febbraio, un articolo del New York Times denunciava le pressioni che lo stesso governo ucraino riceveva da questi gruppi e battaglioni. Trovo alquanto naif sostenere che, essendo la rappresentanza parlamentare neonazista numericamente irrilevante, quelle forze non avessero una forte influenza sul governo del Paese, in quanto le pressioni erano esercitate a livello extraparlamentare.
Una cosa che trovo alquanto pericolosa nel dibattito pubblico italiano è la leggerezza con cui, in alcuni ambienti, si giustifichi la messa al bando di tutte le forze di opposizione in nome della legge marziale. Diciamo che, più in generale, l’esaltazione della narrativa bellica che sta serpeggiando nel nostro Paese rende molto difficile intavolare un ragionamento lucido. Il fatto che il principale partito di “centro-sinistra” in Italia non si ponga neanche il problema della legittimità di un simile provvedimento e anzi, si affanni a difenderlo, mi sembra sia sufficiente a giustificare questa mia affermazione.