Circa un migliaio di persone si sono ritrovate domenica pomeriggio davanti alla base aereonautica militare di Ghedi. Molti vi erano già stati quando si contestavano i bombardamenti in Iraq o a Belgrado. Già alle due e mezza è lunghissima la fila di auto parcheggiate lungo la statale: si vedono le bandiere in fondo, ci si incammina. Oggi non ci sarà un corteo, striscioni e bandiere sono fatte per sfilare, per farsi vedere, ma oggi “ci vediamo” solo tra noi. Al massimo la polizia e i carabinieri che, discreti, osservano e forse ascoltano pure. Tante le bandiere dei molteplici partiti della frastagliata sinistra, qualcuna del sindacato, molte della pace.

Cominciano gli interventi e, malgrado le tante sigle che intervengono, sono di fatto il coro di un discorso coerente e sfaccettato, che descrive una realtà sempre più maledettamente chiara. Proviamo a raccontarne i punti principali.

Non vogliamo la guerra, questa come le altre che abbiamo dovuto subire in questi ultimi decenni. Dietro le guerre vi sono sempre interessi economici e questa non è diversa: qualcuno la vuole, la desidera, e vi si arricchisce pure, in primis i fabbricanti di armi. I manifestanti l’hanno scritto in tanti striscioni: “né con Putin né con la Nato”, ma qui oggi siamo vicini agli armamenti Nato che trasformano il circondario bresciano in una zona a rischio. Vogliamo la pace, vogliamo giustizia sociale e soprattutto un disarmo che dovrà essere preteso con voce sempre più forte.

Interviene Nicoletta Dosio dalla Val di Susa, dove ben sanno cosa siano gli interessi economici, la loro forza, la loro capacità di condizionare i media, di ottenere la repressione del dissenso e poi lo spreco di denaro pubblico.

Dino Greco si sofferma sulla vergogna di questa “censura culturale” che va a colpire tutto quello che proviene dalla Russia, fossero anche autori come Tolstoj o Dostoevskij, cantanti d’opera o sportivi, magari pure delle paralimpiadi. Ricordano come lo stand russo sia stato cancellato dalla fiera del libro dell’infanzia di Bologna: pazzesco, come se si passasse con altri carri armati sulla storia, sulla bellezza, sull’arte. Ricordano quando le Olimpiadi erano occasione di fermare le guerre, mentre qui diventano ulteriore campo per trasformare l’atleta “avversario” in nemico.

Parlano Giorgio Cremaschi, Eliana Como, uomini e donne dei gruppi bresciani che si oppongono alla guerra e che conoscono bene la base di Ghedi. Ricordano come la gran parte degli italiani e delle italiane si sia dichiarata contraria all’invio di armi in Ucraina e di come invece il nostro governo (e con lui quasi tutti i partiti) abbia deciso il contrario. Ricordano come i profughi siano profughi, persone che scappano da situazioni invivibili e come non sia possibile dividerli in belli e brutti. L’accoglienza è accoglienza, per tutti e tutte coloro che scappano attraversando il mare, lungo la rotta balcanica o altrove, rischiando magari la vita.

Suonano per tutti gli Ottoni a scoppio, scaldando un pomeriggio che diventa sempre più freddo. Quando alla fine suonano le note dell’Internazionale nessuno storce il naso (anzi…), nonostante la demonizzazione di questi giorni per tutto ciò che ha a che vedere con la Russia: questo inno è parte del nostro patrimonio culturale, ha segnato la storia, fatto sperare milioni di persone.

Oggi si è ricordata quella decisa e ferma opposizione alla guerra che vi fu nel 1914-15, che venne  poi schiacciata dalla macchina propagandistica che funzionò allora e rischia di ripetersi, come sempre avviene in caso di guerra, anche stavolta.

E allora la luce in fondo al tunnel non potrà essere che un cambio vero, radicale, una rivoluzione quale quella invocata dai giovani che vogliono salvare il pianeta, quale quella che invocava Rosa Luxemburg dopo aver visto le popolazioni europee mandate a massacrarsi a vicenda. E tra due giorni sarà l’8 marzo: che il movimento femminista, rabbioso, sorridente o sbeffeggiante, metta all’angolo il machismo violento che nella guerra vede il suo apice più delirante e terribile.

 

Foto di Andrea De Lotto