Oggi l’attività politica ‘sovversiva’ o alternativa (tanto per intenderci), che meglio si può chiamare radicale, perché tocca le radici della nostra condizione storica, si trova di fronte ad una situazione del tutto nuova, non prevista dalla tradizione classica del percorso iniziato nel 1789 con la Rivoluzione francese e concluso nel 1991 con l’implosione dell’URSS. Si trova di fronte ad una complessità concettualmente inafferrabile, legata inoltre all’irreversibile alterazione antropica dell’equilibrio dinamico bio-geologico.
Bisogna quindi abituarsi a convivere con l’imprevedibile, con l’impossibilità di progettare il futuro in termini generali, come era appunto nella concezione sommariamente indicata sopra, ma, nello stesso tempo, bisogna continuare ad avere un orizzonte politico, cioè di cambiamento di condizioni di vita palesemente inaccettabili, senza del quale la vita perde di senso, restando affidata soltanto alla cieca forza di una sopravvivenza che non è nemmeno più tale: diventa, anzi, il suo contrario.
Mi vien da chiedermi innanzitutto: su che base valoriale costruire questo diverso orizzonte politico? E quale rapporto con il passato?
Il passato non può essere considerato una sequela di errori. Non lo si può annullare. Bisogna rileggerlo. Ci consegna qualcosa di importante e valido anche oggi: ci dice quello che non dobbiamo, non possiamo più fare.
Prendiamo in sommario esame il concetto di rivoluzione alla luce dell’esperienza storica delle rivoluzioni.
Tutte le Rivoluzioni storiche, dalla prototipica Francese in avanti, si sono prodotte in una nuova formazione statuale. Non hanno portato a una liberazione collettiva e individuale, ma hanno riaffermato l’importanza e il potere di un’autorità, di una gerarchia, di uno Stato.
L’errore di fondo è stato prendere il potere.
Un altro punto: è innegabile l’importanza del pensiero di Marx e del marxismo, anzi dei marxismi, ma della parte analitica assai più che di quella propositiva e progettuale.
Marx resta colui che ci ha mostrato la dinamica interna del Capitale, cioè del sistema culturale che domina da qualche secolo la terra; il motore, fatto di sfruttamento e dominio, di una Cultura dotata di un’inesauribile capacità di espansione, in grado di fare delle sue stesse crisi la materia del successivo sviluppo.
Ma, se il passato rivoluzionario è fallito anche per limiti intrinseci, essendo stato in grado di abbattere ma non di costruire, donde prendiamo allora il nostro punto d’appoggio per agire?
Dall’esperienza politica del corpo.
Necessariamente, devo partire dalla mia esperienza personale con corpi migranti: circa sette anni, con tante persone, negli ultimi due con Linea d’Ombra. Si tratta dei corpi dei migranti della cosiddetta Rotta balcanica.
Sono corpi densi di Storia, portatori della verità etica e storica di un territorio e di una situazione storica esemplari anche dell’intera condizione attuale del mondo. Mi riferisco al mondo dei dominati dalle potenze che chiamano se stesse Occidente: comprende l’Africa, buona parte dell’Asia, l’America del Sud, ma anche del Nord, per quel che riguarda le popolazioni indigene e possiamo ben dire, anche i discendenti degli ex-schiavi.
I corpi dei migranti di cui noi ci occupiamo vengono dalla crisi irreversibile di quella costruzione coloniale e semi-coloniale chiamata dagli Occidentali Medioriente.
Gran Bretagna e Francia, i due più grandi paesi coloniali, si impadronirono dei vasti territori fra Asia e Africa, durante la Prima guerra mondiale, dopo la crisi definitiva di quel vastissimo e potente organismo culturale, politico, militare chiamato Impero Turco o Ottomano, per secoli controparte minacciosa dell’Europa, arrivato fino ad assediare per due volte Vienna (1529, 1683).
Ne rimangono tracce in Europa, proprio nei Balcani, nella cultura islamica di quella federazione della Bosnia Erzegovina, punto d’arrivo oggi della principale Rotta balcanica, confinante con il primo stato dell’Unione europea, la Croazia: i profughi dal Medioriente ripercorrono la strada dei potenti eserciti turchi verso Vienna. Una sorta di doloroso paradosso storico.
Il Medioriente oggi conosce una crisi irreversibile:
– vasti territori, dall’Afghanistan allo Yemen, devastati dagli interessi geopolitici ed estrattivi occidentali (e comunque dei paesi potenti come Cina e Russia), produttivi anche di quella crisi ambientale di cui si parla – si parla soltanto – ma su cui la Cultura dell’Economia di mercato non è assolutamente in grado di agire.
– Alcune monarchie petrolifere, inventate e protette e armate fino ai denti dall’Occidente (10% del Pil dell’Arabia Saudita per le armi: la maggior percentuale al mondo!).
I migranti che arrivano fra noi, mettendo tutto in gioco (game! come non a caso chiamano il cammino), anche la vita, sono gli annunciatori di una devastazione globale, di cui il Medioriente è solo una delle regioni.
Ci chiamano quindi ad agire – e non solo per loro.
Questi migranti sono portatori di un diritto fondamentale etico-politico, ma che incide anche sull’equilibrio su cui si basa la vita in generale: in questo senso si tratta di un diritto radicale, che si può chiamare ontologico. Il diritto di vivere una vita degna d’essere vissuta dagli esseri umani poggia sulla base del necessario scambio vitale fra tutti i vivente e anche sull’equilibrio geologico.
La vita è scambio fra una molteplicità di elementi. ‘Scambio’ può essere in modi diversi.
La vita implica cura e predazione ( ben visibile nello scambio alimentare).
È relazione di cura, come fra genitori e figli, ma è anche predazione, che gestisce le catene alimentari della vita. L’homo sapiens, che si è svincolato dalla stretta dipendenza del contesto ambientale, contrapponendovisi, è diventato il predatore più grande, il predatore di tutto, il predatore della terra.
Le civiltà umane hanno finito con l’enfatizzare la predazione. Con il capitalismo, la predazione diventa senza limiti, infrangendo l’equilibrio della vita.
Contemporaneamente, però, per gli umani la cura è più importante che per ogni altro vivente. Ci sono viventi che abbandonano i figli appena nati, perché già dotati di una capacità di sopravvivenza. Più i viventi sono complessi, più lunga è la durata della condizione d’inerme. Nel caso degli umani è lunghissima.
Da questo dato si può forse partire per immaginare una socialità, una società, della cura, trasformando il distacco dell’essere umano dall’ambiente in cui è nato e la sua violenta contrapposizione ad esso in un’estensione generale, o comunque molto ampia, del rapporto di cura.
Certamente, la direzione imboccata dalla storia umana, che ha coinvolto la storia biologica e anche la storia geologica – la storia della terra – va in direzione contraria. Ma, come già una volta l’homo sapiens si è distaccato dalla sua matrice in modi alla fine dannosi, potrebbe staccarsene anche nei modi di un’estensione diffusa della cura per il vivente.
Una speranza certamente esile se ci guardiamo intorno e anche dentro, im-posta oggi da una domanda reale e, prima o poi, comunque ineludibile, che nasce dalla storia umana, biologica e geologica.
Sono temporalità diverse, ma che ora tendono a precipitare, a collassare, sul nostro tempo storico.
Si potrebbe chiamare una speranza terrestre, dato che la vita sulla terra, con un’urgenza ogni giorno più intensa, esige cura per continuare.
In tale contesto l’impegno con i migranti della Rotta balcanica, cioè della Rotta europea, costituisce un tentativo di praticare il rapporto di cura come centro del rapporto politico in tempi di catastrofe.