Ho conosciuto don Giovanni durante il primo lockdown, un momento in cui si sono conosciute persone in modi inaspettati. Il caso ha fatto incrociare le nostre strade. Da allora abbiamo collaborato in più di un’occasione e in forme molto concrete, rispetto ad urgenze che la periferia reclamava all’uno o all’altro. Dai nostri rispettivi “mondi” ci capita di confrontarci, ridere, indignarci, provocarci, disperarci. Eredi lontani di Peppone e don Camillo, piccoli, tra le torri gigantesche delle case popolari di Gratosoglio, periferia milanese… “Là dove c’era l’erbaaaaaaa…”
Caro Giovanni, se voi preti foste una categoria di lavoratori potremmo dire che siete sotto-organico?
(Ride) In effetti è così, e sì che avresti sia lo stipendio che la casa, non capisco perché non si riempiano i seminari….
Raccontaci il tuo rapporto con la povertà.
Provengo da una famiglia dignitosamente povera, mio padre era un ferroviere, mia madre casalinga: spesso ho dovuto attendere quando c’era da chiedere qualche cosa, magari un paio di scarpe. Nato in periferia, in periferia sono rimasto anche come prete, prima alla Barona e adesso a Gratosoglio (entrambi quartieri popolari della periferia sud di Milano). Il tema della povertà non mi ha mai lasciato indifferente, lo sguardo rimane acceso su questa tematica. Non posso certo definirmi povero, ho una casa, una macchina, non ho problemi a fare la spesa, ma cerco continuamente di rimanere nell’essenzialità.
Anni fa mi colpivano famiglie sfrattate che finivano sulla strada. Bussavano in parrocchia e cercavano o una sorta di raccomandazione ad Aler o altre soluzioni. Io sono cresciuto come prete con un parroco di strada, un grande uomo che è venuto a mancare due anni fa, don Roberto Rondanini. Lui mise in piedi l’associazione “Sviluppo e promozione” in Barona e fu co-fondatore del Villaggio Barona, bella esperienza di co-housing sociale. Quando stavo in Barona gli sfratti erano più frequenti, c’era anche molto più abusivismo.
Poi ci sono i clochard, che ho sempre visto come una grande scuola per i ragazzi che seguo in oratorio. Incontrarli faceva sì che Milano venisse vista “dal basso”, come disse uno dei ragazzi che partecipò ad uno di questi incontri. Da lì, qualche giro notturno con la ronda della carità e gli adolescenti… Adesso continuiamo in autonomia con questo gruppo di giovani che si è formato nel dicembre del 2020. Siamo in collegamento con l’associazione Rete Milano, ma siamo autonomi. Negli ultimi tempi la prospettiva si è allargata agli ultimi tra gli ultimi, cioè i transitanti. Mentre per i clochard l’amministrazione prevede un piano freddo, con tutte le sue disfunzionalità, con una soglia che vogliono farci credere che sia bassa, ma che invece bassa non è…
Spiegaci meglio…
La soglia, in questo momento, è prima di tutto il green pass, per cui se non sei vaccinato ti devono vaccinare e la cosa non si risolve nel giro di un’ora, e poi il famoso test di Mantoux che pure devi prenotare e poi, quando hai l’esito, puoi accedere ai servizi. La questione sanitaria è diventata preponderante e discriminante, di questo sono sempre più convinto.
Come dicevo, tra questi ultimi ci sono gli ultimi degli ultimi che sono i transitanti, quelli di cui tutte le istituzioni negano sistematicamente l’esistenza. Non è effetto di distrazione o ignoranza, e quando lo si fa notare e ti rispondono “già lo facciamo…” non è vero: per questi transitanti né Comune né Caritas ambrosiana fanno quello che potrebbero. E non sono solo giovani e adulti, ma anche minori non accompagnati, donne con bambini che rimangono in strada, soprattutto intorno alla zona della Stazione Centrale. Arrivano soprattutto dalla rotta balcanica, a piedi o su un treno di fortuna, passano di qua in vista di una ripartenza verso Francia, Svizzera, Germania… Chiedono se c’è un posto per dormire una notte, dove fare una doccia, cambiare gli indumenti… Tu, in assenza di altro, gli procuri un sacco a pelo e loro si sistemano dove trovano. I transitanti non ne vogliono certo sapere di fermarsi, lasciare le impronte digitali e fare richiesta di restare qua, alla faccia di tutti coloro che dicono che l’Italia è invasa… Poi ci sono i richiedenti asilo che hanno un appuntamento tra un mese o due e nessuno provvede a un alloggio per loro.
In fondo tutti noi siamo migranti e siamo nomadi, siamo figli di migrazioni, è nel nostro DNA, e abbiamo diritto a spostarci per raggiungere magari una parte della nostra famiglia o dove pensiamo che la vita possa realizzarsi secondo i nostri sogni. Caro Andrea, su questo penso di essere più marxista di te! (ride)
So che la soluzione a questi problemi richiederebbe di andare alla radice, ma qui ed ora, cosa si potrebbe fare secondo te per rispondere a questi bisogni urgenti? Pensando anche alla vecchia definizione di Milano “capitale morale”…
Prima di tutto, sia nel micro qui a Gratosoglio, che nel macro per quanto riguarda Milano, vedo l’incomunicabilità tra le istituzioni: un coordinamento tra Prefettura, Comune e Regione aiuterebbe in questa accoglienza a bassissima soglia, chiamiamola così, perché giuridicamente la categoria del transitante non esiste. Esiste però l’essere umano che sta in strada, non mi interessa di preciso da dove viene e dove va, ma in questo momento è nella nostra città. Un coordinamento maggiore permetterebbe a queste persone non solo di poter uscire allo scoperto ed eventualmente chiedere asilo nel nostro paese, ma permetterebbe anche un intervento sanitario, perché a volte questa gente è sofferente nel corpo. Altrove succede, penso per esempio all’alta Val Susa, a Oulx, dove la Prefettura ha dato a un prete la possibilità di aprire un ostello per questa gente transitante. Tutti sanno che quella gente è di passaggio e cerca fortuna in Francia, ma a me interessa solo che non stiano in mezzo alla strada. Quindi coordinamento tra le istituzioni e l’enorme rete di volontari che c’è e spesso non si vede.
Le istituzioni forse “si chiamano fuori” dal momento che se formalizzassero un incontro con queste persone scatterebbe la “gabbia” che le costringerebbe a restare in Italia, le impronte digitali e tutto il resto…
Si questa è la scusa che viene usata per non fare nulla. Comprendo la contraddizione, ma fa molto comodo. Per questo dico che dovrebbe essere un’accoglienza non solo a bassissima soglia, ma anche sotto-traccia. Secondo me rimane la libertà delle persone di andare dove credono. Comunque non prendiamoci in giro. In questo momento non c’è neanche la possibilità di dire loro: se volete fermatevi e fate domanda di asilo qui.
Cosa ne pensi di coloro che dicono che qualsiasi forma di aiuto diventa un “pull factor” che quindi spinge più immigrati ad entrare, come se peggio li trattiamo, meno saranno incentivati a venire…
È un’illusione. Io credo che i maggiori crimini nei confronti dell’umanità, per i quali spero che prima o poi qualcuno paghi, che avvengono tra Slovenia, Croazia e Bosnia, servano a mostrare questo volto duro dell’Europa, perché sappiamo bene che non è iniziativa del singolo poliziotto o della polizia croata intervenire con quelle forme disumanizzanti di violenza: è il volto dell’Europa. Ma non serve assolutamente a niente, perché questa gente ha nel cuore talmente tanto desiderio di futuro e talmente tanta disperazione alle spalle che non li ferma proprio nessuno. Ho visto, in un campo profughi l’estate scorsa in Bosnia, un formicolare di persone e nonostante gli inviti a ritornare nel loro paese, nessuno lo fa. Ma come si fa a tornare indietro?
Sembra anche a te che ai nostri occhi diventino un tutt’uno, una massa di poveri e disperati, mentre al loro interno ci sono probabilmente mille differenze, mille storie?
Sì, io conosco soprattutto la rotta balcanica, ma non ho mai visto un contadino di fuori Kabul prendere e partire arrivando a piedi fino a qua, sopportando atrocità. Ho sempre visto giovani, mediamente emancipati, con un inglese fluente, appartenenti, credo, alla borghesia del loro paese, potenziale classe dirigente nel loro paese. E sanno che verranno qui a fare i lavori che nessun europeo vuole più fare.
Certo è che quando incontro questi giovani migranti trovo ragazzi che non sono stati intaccati nella loro capacità di desiderare; trovo giovani che se avessero le stesse possibilità dei “nostri” farebbero in metà tempo quel salto di qualità che li farebbe accedere alla classe dirigente, non hanno un desiderio placato. I “nostri” sono sopiti, addormentati, nella nostra società dal consumismo sfrenato.
Qual è la reazione dei tuoi giovani di Gratosoglio?
Direi su più livelli: c’è chi si limita a fare un po’ di assistenza perché fondamentalmente fa bene a lui, c’è chi si affaccia a questo mondo della strada, c’è chi si lascia graffiare dalle situazioni che scoprono in strada. Credo facciano bene questi graffi che bucano quella bolla di “inutilità” in cui molti dei nostri giovani sono immersi (su questo sono molto duro); questo permette loro di impegnarsi per un mondo diverso. E poi c’è chi ci entra a capofitto con la testa e non solo col cuore, magari ponendosi la questione su come farà a dare un contributo a cambiare questo mondo. Certo chi viene non è indifferente.
Qualche volta mi diverto a portare anche i “maranza” di Gratosoglio e questa cosa è molto bella. Loro stessi vivono situazioni di ghettizzazione nel nostro quartiere, sono ragazzi che difficilmente entreranno in circuiti importanti della nostra città. Quando entrano in contatto con questa marginalità della strada, forse si rendono conto che quel poco che hanno è già parecchio, e forse anche in loro scatta quel “allora posso anche io occuparmi di qualcun altro e non rimanere seduto… Non devo solo aspettare che qualcuno si occupi di me…”
Hai nominato quartieri di Milano con una precedente forte immigrazione dal Sud Italia. Non avviene un “cortocircuito” positivo in questi “ritorni” della storia?
Direi di no, ahimè. Senza generalizzare, ma temo che chi ha una sua storia di immigrazione dal sud Italia (e lo dico da figlio di immigrati), non avendo mai rielaborato questa storia, spesso fa trasparire una chiusura ancora maggiore nei confronti delle nuove migrazioni. Qui al Gratosoglio mi sorprende che anche gli immigrati di prima generazione, dal terzo mondo, vivono verso questi nuovi flussi migratori lo stesso sentimento di disprezzo. Forse è nella natura umana che per realizzarmi devo affondare qualcun altro.
Eppure, i contatti tra queste emigrazioni sono tanti! Secondo me non c’è neppure più il sogno di una società differente, che avrebbe permesso un’alleanza tra poveri, un movimento di liberazione popolare degli oppressi che permettesse loro di prendere coscienza che un mondo diverso è possibile. Non parlo di una rivoluzione in armi, ma di un cambiamento forte, radicale, generale, sì. E mi riferisco anche al mondo cristiano, al popolo di Dio, fatto di poveri che, in nome del Vangelo, si liberano dall’oppressione e non l’attendono solo come escatologia finale: che ora e qui ci possa essere un sussulto di liberazione. Questa cosa si è persa.
Su questo aveva ragione Pasolini: l’omologazione della società dei consumi ha spento qualsiasi anelito ad una realizzazione collettiva, lascia invece acceso e inferocisce quello della realizzazione personale.
Cosa hai capito di quell’operazione fatta alcune sere fa nei tunnel sotto la Stazione Centrale, quando vennero spazzati via tutti i pochi averi di coloro che vi dormivano?
Io quel giorno alle 14 stavo parlando con la vicesindaca proprio di queste cose. Non sapevo nulla, quella sera stessa fecero quella operazione che giudico, soprattutto nei modi e nella forma, pessima.
Ti sembra che gli amministratori locali si trincerino dietro un “Non è compito nostro”?
No, non mi sembra che deleghino. Credo piuttosto che tra loro, dall’alto delle loro posizioni, vi sia pure la convinzione che si stia facendo, si stia rispondendo. In realtà la macchina burocratica, o altro, fa sì che andando in basso a vedere si scopre che le risposte non vengono date. Come se da quella prospettiva non ci si rendesse conto che c’è una boscaglia inestricabile che fa sì che non si risponda davvero ai bisogni dei poveri.
Hai mai portato i tuoi ragazzi in via Montenapoleone o via della Spiga?
Si, ci siamo andati. Ricordo che c’era un ragazzo giovanissimo, quasi invisibile talmente era rannicchiato e avvoltolato su sé stesso. Tremava dal freddo, dietro c’era una vetrina di Dolce e Gabbana con vestiti da 12 o 15mila euro. In quelle sere torni a casa e non hai neanche più voglia di parlare.
Tornando ai transitanti, credi che ci sia un racket dietro?
Credo proprio di sì, sennò non si spiegherebbe come a volte ti ringraziano, ma ti dicono che hanno appuntamento con un amico la sera stessa e il giorno dopo ti mandano un messaggino che dice che sono arrivati in Svizzera o altrove. In Bosnia, in Serbia tutti sanno chi sono i passeurs e si sa anche che con alcuni passi e con altri no. La corruzione della polizia di frontiera è altissima. Non voglio pensarlo di quella italiana o svizzera o francese, ma i passaggi ci sono anche da qui, eccome. Le mafie ci vedono benissimo e arrivano ovunque ci sia da far soldi. Mi fa ridere Draghi che adesso dice che “dovremmo anche noi immaginare che l’immigrato possa essere utile…”. Vergogna! La monetizzazione dell’uomo. Quell’affermazione di Draghi mi ha messo i brividi: la quota flussi, perché ne abbiamo bisogno economicamente. Così come la Ministra degli Interni non può non sapere cosa accade ai confini. Lamorgese è colpevole, ma non – come dice la Lega – di aprire i porti, ma dei rigetti, dei respingimenti, dei soprusi che questa gente ha subito anche quando aveva diritto di asilo. E che adesso arrivi il Presidente del Consiglio a dire che c’è bisogno di loro economicamente, è terribile, ripeto: è la monetizzazione dell’uomo. La politica non ha saputo e non sa dare risposte umanitarie.