Il 2021 è stato un anno difficile per la Bosnia Erzegovina. L’uscita dalla crisi del COVID ha riportato alla superficie una situazione politica molto conflittuale, conclusasi con le nuove sanzioni americane a Milorad Dodik. Il 2022 non si annuncia più semplice.
La crisi sanitaria
Il COVID-19 ha colpito duramente la Bosnia Erzegovina: con oltre 300.000 casi (il 10% della popolazione) e 13.000 morti, la Bosnia Erzegovina resta tra i paesi in Europa con la più alta mortalità pro capite assieme alla Bulgaria (4.000 morti per milione – lo 0.4%). Colpa di percentuali di vaccinazione molto basse (50% a Sarajevo ma non più del 20% nel resto del paese) e di un sistema sanitario frammentato e inefficiente (la Bosnia non ha neanche un sistema di certificati che possa ottenere equivalenza col green pass europeo – cosa che non è certo un vanto, nonostante certe news no-vax).
La progressiva normalizzazione della situazione nella seconda parte dell’anno ha però riportato alla luce questioni politiche latenti, che avevano trovato una certa tregua durante la pandemia.
Vecchi e nuovi alti rappresentanti
Tutto ha avuto inizio nel mese di febbraio, quando la Germania della cancelliera uscente Angela Merkel ha annunciato che avrebbe presentato un candidato alla carica di Alto Rappresentante internazionale in Bosnia Erzegovina nella figura di Christian Schmidt, già ministro dell’Agricoltura in quota Unione Cristiano-Democratica (CDU). Schmidt, nominato formalmente dal Peace Implementation Council (PIC) a maggio, è entrato quindi in carica ad agosto.
Ma la sua nomina non è stata gradita da Milorad Dodik, a capo del primo partito dei serbi di Bosnia e membro serbo-bosniaco della presidenza del paese, nonché dai suoi protettori a Mosca (e Pechino). Il mancato endorsement di Schmidt da parte del Consiglio di Sicurezza ONU (formalmente non necessario, ma politicamente pesante) ha dato così l’occasione alla Russia e alla Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina, di delegittimare l’ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR).
Nel frattempo, l’Alto Rappresentante uscente, l’austriaco Valentin Inzko, in carica dal 2009, ha voluto terminare il mandato imponendo a fine luglio, coi propri poteri esecutivi (non più usati dal 2010), una legge contro il negazionismo del genocidio e dei crimini di guerra: nobile intento, ma che ha scatenato, per metodo e merito, di nuovo la reazione dei serbi di Bosnia, tanto che l’assemblea della Republika Srpska ha negato la validità della legge imposta dall’Alto Rappresentante.
La paralisi delle istituzioni e le minacce di secessione
Citando tale percepito sopruso, così come l’altrettanto percepita sopraffazione da parte della Corte Costituzionale, che a luglio ha stabilito la proprietà statale sulle foreste, come già fatto in precedenza per i fiumi, i partiti della Republika Srpska hanno annunciato il boicottaggio delle istituzioni statali, bloccando così l’operato di presidenza, consiglio dei ministri (di cui esprimono il premier, Zoran Tegeltija) e parlamento. L’esecutivo bosniaco si è riunito una sola volta in tutto il secondo semestre (per approvare i vaccini J&J), mentre il paese è andato avanti senza un bilancio 2021, a colpi di esercizio provvisorio trimestrale.
A Banja Luka, intanto, i partiti serbo-bosniaci hanno annunciato di volere il rimpatrio delle competenze progressivamente trasferite al livello statale negli ultimi 26 anni. Come primo passo, l’assemblea dell’entità a maggioranza serbo-bosniaca ha dato il via libera a ottobre a una agenzia sui medicinali, separata da quella statale; una misura che sarà probabilmente cassata dalla Corte costituzionale, ma che nel frattempo creerà non pochi grattacapi giuridici e commerciali al settore farmaceutico nel paese. E a inizio dicembre la stessa assemblea ha invitato l’esecutivo serbo-bosniaco a presentare entro sei mesi progetti di legge per il ritiro da istituzioni statali quali l’esercito, la polizia investigativa, l’agenzia delle entrate e il consiglio della magistratura. Un programma “Dayton ’95” di secessione leggera, o di fatto, come denunciato da Schmidt all’ONU.
L’iniziativa, guidata da Dodik, ha suscitato reazioni, con Stati Uniti e Germania che si sono detti pronti a imporre sanzioni contro la leadership politica di Banja Luka se tali piani dovessero essere portati a compimento, mentre l’Ungheria ha affermato che proteggerà Dodik dalle sanzioni in sede europea.
La prospettiva di una ricostituzione dell’Esercito della Republika Srpska (VRS), che durante la guerra del 1992-1995 si è reso responsabile di massacri e del genocidio di Srebrenica, ha particolarmente inquietato la popolazione. Ma la situazione di sicurezza nel paese resta calma, garantita anche dalla missione europea EUFOR Althea, il cui mandato esecutivo è stato rinnovato dal Consiglio di Sicurezza ONU a novembre, nonostante i timori di un veto russo.
Verso elezioni, perché nulla cambi
Non va tuttavia sottovalutata la tempistica pre-elettorale di questa escalation politica: sei mesi da dicembre è mese di maggio, quando dovrebbero essere annunciate le regolari elezioni per ottobre 2022. Perché ciò avvenga, però, sarà necessario sbloccare le istituzioni statali per adottare un bilancio 2022 che includa i necessari stanziamenti.
Nel frattempo, le controversie attorno all’OHR e alle iniziative para-secessioniste di Dodik non hanno mancato di disturbare le discussioni per una riforma costituzionale ed elettorale che risolva la più che decennale questione Sejdic-Finci di discriminazione di minoranze e cittadini, e rassereni le relazioni tra il partito bosgnacco SDA e quello croato-bosniaco HDZ BiH che da oltre tre anni tiene bloccate nomine e istituzioni della Federazione (l’altra entità amministrativa del paese) e minaccia di bloccare o boicottare il voto venturo. I mediatori europei e americani a dicembre hanno annunciato un rinvio della loro terza missione dall’estate, per mancanza di progressi tra le parti.
Se davvero si terranno in ottobre, come da calendario, dopo mesi di campagna elettorale, le elezioni politiche rischiano pertanto di restituire una situazione altrettanto complessa, con partiti politici arroccati su posizioni oltranziste. Un altro giro di giostra della politica bosniaca, affinché nulla cambi, a discapito della popolazione del paese, sempre più impoverita e rassegnata a subire o emigrare.