Prima sono venuti i respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione Europea: illegali, impuniti e violenti per terra come per mare. Poi ci sono stati i respingimenti a catena alle frontiere interne, chiamati riammissioni per mascherarne la natura. Infine per ampia parte di coloro che, a prezzo di inaudite sofferenze, riescono a entrare in Europa, la domanda di asilo viene esaminata, alla frontiera e non, in modo fulmineo. Le procedure sono sommarie e l’unica finalità è provare a negare ogni protezione così che il rimpatrio coattivo, attuato senza un effettivo diritto di difesa, divenga la soluzione finale di un percorso già scritto dall’inizio.
Questo gorgo oscuro nel quale siamo finiti riguarda da tempo tutta l’Europa anche se è più visibile in alcuni Paesi nei quali l’ordinamento democratico è particolarmente fragile. Nella Polonia di fine 2021 la situazione è arrivata all’estremo e lo stesso Stato di diritto è collassato; in primis per i rifugiati ma in realtà per chiunque giacché nessun cittadino è più al sicuro nel Paese.
La Polonia è riuscita a realizzare tutte le violazioni possibili del diritto d’asilo: è stato di fatto sospeso alle sue frontiere, come nel territorio, respingendo apertamente e con ogni mezzo violento i rifugiati verso la Bielorussia dove sono arrivati a seguito dell’uso criminale che viene fatto di loro dal regime di Aljaksandr Lukašėnka. In tal modo la Polonia ha annullato il divieto assoluto di non respingimento sancito dall’Art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Si è resa responsabile della morte di almeno 20 persone (ma il numero è probabilmente sottostimato) tra cui alcuni bambini che sono stati lasciati morire di stenti e freddo sulla linea del confine pur conoscendone esattamente la grave condizione. La difesa di scelte così estreme invoca una sorta di “guerra ibrida” che il regime bielorusso starebbe conducendo usando i rifugiati come armi e la conseguente necessità di dovere difendere, a tutti i costi, il confine dell’Europa.
Invocare l’esistenza della nuova “guerra” in atto ha permesso al governo polacco di dichiarare lo stato di emergenza in tutta l’area di confine, impedire l’accesso ai giornalisti, criminalizzare chi difende la legalità e porta soccorso alle persone a rischio di vita nella foresta giungendo, in un’escalation che al momento della stesura di questa riflessione non sembra avere fine, persino a impedire le visite dei parlamentari europei affinché nessuno possa vedere quello che sta realmente avvenendo. Su tutto ciò la Commissione Europea tace, complice di fatto dello stravolgimento di quella legalità che è chiamata a difendere.
Sono almeno 20 le persone che nel dicembre 2021 hanno perso la vita lungo la frontiera tra Polonia e Bielorussia.
A chi, magari con travaglio interiore, ritiene che tale situazione possa essere tollerata in ragione della sua eccezionalità non oppongo una valutazione politica o etica bensì una giuridica. La Convenzione sui diritti dell’uomo del 1955, consapevole che scenari di guerra e di pericolo sarebbero stati in futuro purtroppo sempre possibili, aveva previsto la possibilità di derogare, in modo limitato e temporaneo, al rispetto di alcuni dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa chiarendo però che “nessuna deroga” (Art. 15) può mai essere ammessa, neppure in stato di guerra, al divieto di respingimento verso luoghi dove c’è rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. La Polonia e l’Europa non sono in guerra perché qualche migliaio di disperati disarmati si trovano al nostro confine e chiedono asilo. Affermarlo è osceno. Infine se fossimo in guerra nulla cambierebbe rispetto a ciò che non possiamo mai fare. Abbiamo superato, persino in assenza di alcuna ragione, il limite invalicabile dell’identità che ci siamo dati e lo dobbiamo sapere, senza finzioni.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste.