Un prezioso libretto, uscito nel 2020, ci offre utili spunti per riflettere su come far politica nell’epoca della complessità, cioè in un’epoca in cui il futuro è irrappresentabile. Non si tratta solo del nostro umano futuro storico, ma del futuro dell’insieme geo-biologico in cui tutto si regge. Ne siamo parte integrante – e distruttiva.
Questa problematica fondamentale è espressa con chiarezza e semplicità in un breve testo dello psicanalista e filosofo franco-argentino Miguel Benasayag intitolato Cinque lezioni di complessità[1].
“La complessità (di cui la pandemia è una materializzazione esemplare) implica che ci sia sempre un nucleo oscuro non rappresentabile che ci obbliga ad accettare la coabitazione con un non-sapere che non è ignoranza, ma che è strutturale e si situa nel cuore di ogni sapere possibile”[2].
Questa impostazione è divenuta da anni ormai anche la mia, intimamente e politicamente.
Uso insieme i due avverbi, perché penso che insieme debbano stare le due dimensioni cui si riferiscono. Nella tradizione politica da cui provengo, invece, erano di solito vissute, immaginate (anche se non sempre pensate) separatamente – per quanto la cultura femminista avesse già da tempo colto e affermato la loro unità, ma senza riuscire a incidere profondamente, soprattutto a livello di pratiche.
Uno degli aspetti della ‘complessità’ è appunto il rimescolamento di dinamiche che ritenevamo o volevamo separate, almeno di fatto, non solo il personale e il politico, anche (e molto di più) le dinamiche geologiche e biologiche. Ci troviamo, quindi, di fronte all’incombere di ritmi temporali diversi: quello geo-biologico, chiamato anche Geostoria, non era nemmeno contemplato nell’orizzonte dell’azione politica. Ora è diventato l’incombere di una catastrofe, peraltro già in atto con segnali anche molto vistosi, ma culturalmente ancora assai poco percepiti. Come afferma uno dei più noti studiosi della problematica ecologica, Bruno Latour: “Non si comprende nulla dell’attuale vuoto della politica se non si coglie fino a che punto la situazione è senza precedenti” che, più oltre nello stesso testo, indica come: “contraddizione tra il sistema di produzione, da un lato, e il sistema di generazione dall’altro”[3]. La pandemia virale in atto non è, in genere, associata alla crisi ambientale o lo è in maniera poco influente, mentre, nel nostro paese ma non solo, agisce potentemente offrendo l’occasione a sistemi di governo privi di ogni possibilità di controllo dal basso.
In tale contesto, l’agire politico che si pone come scopo la trasformazione radicale dello sfrenato dominio dell’economia di mercato, deve compiere una sorta di azzeramento metodologico.
Ovviamente, ciò non può in alcun modo significare fingere di dimenticare una tradizione che nasce e si afferma tra la Rivoluzione Francese e il 1848 e, con varie complesse e anche contrapposte dinamiche, arriva fino agli anni Settanta del secolo scorso.
Dico questo solo per me ottuagenario? Esistono, peraltro, ancora centri di attività politica che si rifanno in qualche modo a questa tradizione ma, come ho già detto nell’editoriale precedente, privi di un’effettiva capacità di incidere socialmente.
Ecco allora che è importante ribadire la profonda e complessa differenza fra l’ieri e l’oggi, che si manifesta con il cambiamento drastico del punto di partenza del gesto politico.
Benasayag lo dice con chiarezza: “siamo sempre convocati da situazioni concrete di cui siamo parte”[4]. Io ho sperimento questa convocazione da sei anni, ormai.
Quello che rimane di una tradizione di cui mi sento parte è un imprescindibile arco di ‘valori’ in base a cui orientarsi nella situazione in cui siamo convocati. Questi valori, però, vanno incontro a un potente paradosso: da una parte, sono sempre più richiamati dalla condizione sociale dei tempi presenti, dimostrando a contrario la loro validità; ma sono anche chiamati a trasformarsi profondamente nel necessario allargamento alla complessità, alla totale interdipendenza di quell’insieme dinamico che è la vita terrestre: interdipendenza a tutti i livelli, fra gli umani, i viventi e anche nei confronti di ciò che la nostra tradizione ‘occidentale’ considera sfondo inanimato, come l’atmosfera – insomma la terra come insieme dinamico.
La complessità, che è il tema della riflessione di Benasayag, indica un cambiamento del nostro rapporto con il mondo, per cui la realtà che ci rappresentiamo rimanda sempre a qualcosa che ci sfugge, ad una complessità che non potremo mai rappresentarci, ma determinante, perché la realtà “consiste sempre in una certa stabilità costruita sopra il divenire” di questa complessità “che la genera”. Nell’azione “ogni atto si fonda su un non-sapere fondamentale e sull’impossibilità di avere tutto sotto controllo”, così, ad esempio fondamentale, “ciò che avviene nel nostro corpo e ciò che possiamo saperne a livello cosciente sono due cose radicalmente differenti”. Tutto ciò “implica necessariamente una nuova riflessione sul soggetto dell’agire nell’epoca della complessità”, la quale non può che portare a “l’accettazione della fragilità intesa come condizione ontologica dell’umano e dell’esistente”[5].
Questi accenti rimandano ad altri spunti riflessivi, fra cui significativi per me quelli di Judith Butler, che molto vi insiste. “Il corpo è costituito da prospettive che non può abitare; è qualcun altro a vedere il mio volto e a sentire la mia voce, in modi che mi sono preclusi. In questo senso – corporeo – noi siamo sempre altrove, e al tempo stesso qui, e questo spossessamento evidenzia la socialità alla quale apparteniamo”[6].
Lo dice efficacemente anche Antonello Sciacchitano: ”Il corpo è visto prima che possa vedersi. Quando il corpo vede, vede da un punto in cui non si vede. Ciò rende la sua esposizione originaria alienante e definitiva”[7]. Anche se questi due spunti riflessivi rimandano a una dimensione soltanto interumana, tuttavia mostrano anche solo in tale contesto la presenza di un non sapere ineliminabile con cui dobbiamo fare quotidianamente i conti.
Questo pullulare di citazioni rischia però di cadere in un dibattito letterario – potente vizio tradizionale. Non si tratta, invece, di confrontare fra di loro autori, ma di capire quale strumento intellettuale sia più utile per camminare nella situazione in cui io sono ‘convocato’, che è quella delle migrazioni dal Medio Oriente (e dall’Africa). Questa comprensione porta a mettere tra parentesi le letture sulla base di un metodo induttivo, che è il principio stesso della convocazione, cioè del trovarsi– e qui giocano i valori di cui sopra – nella necessità etico-politica di agire in una situazione non controllabile, non rappresentabile, che provoca smarrimento, paura, angoscia e anche disperazione.
Qui sta il cuore dell’agire politico oggi. È necessario assumere l’incertezza come una dimensione imprescindibile della nostra condizione che non può più essere indicata soltanto dall’aggettivo ‘antropologica’. Ciò significa accogliere l’incertezza, accettare di camminare nel buio, rifiutandosi di illuminare la situazione con una luce che proietterebbe solo fantasmi.
Qui c’è la tensione fra tempo storico umano, tempo personale e tempo geo-biologico: una tensione non rappresentabile, ma che dobbiamo assumere.
Si tratta di un’incertezza fatta di incontri molto concreti con corpi di dolore, come li chiama Achille Mbembe, di un dolore che è il messaggio proprio di questa complessità irrappresentabile in cui siamo e che ci invita ad agire in modi che sono inscritti nella situazione stessa: curare, nel significato ampio, profondamente etico-politico, di curarsi degli altri, curarsi della vita, che è il modo migliore di curarsi di sé; e nel significato specifico di curare corpi feriti; nutrire corpi affamati; vestire; ma anche e soprattutto incontrare, accogliere.
Il tutto per dar corpo al diritto di andare dove si può viver meglio – un diritto che è concretamente sovversivo.
[1] M. Benasayag, Cinque lezioni di complessità, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020.
[2] M. Benasayag, cit., p. 16.
[3] Cfr. B. Latour, Tracciare la rotta, Raffaello Cortina 2018, pp. 60 e 115.
[4] Benasayag, cit., p. 116
[5] Benasayag, cit., nell’ordine pp. 12, 35,62,84,66.
[6] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo 2017, p. 155.
[7] In “Il corpo pensante” in Aut Aut 330, aprile giugno 2006 pp. 73-93, cit. in M. Spann, Il ‘corpo ebreo’ nel post Shoah, EUT, 2018.