pubblichiamo la nota del CUA della città felsinea diramata dopo le manifestazioni della scorsa settimana contro l’Alternanza Scuola-Lavoro. I giovani universitari nell’esprimere il dolore per la morte di Lorenzo Parelli svolgono una attenta analisi critica del sistema formativo imposto dalla società dominante attraverso il perfezionamento della macchina del disciplinamento e della normazione. Pertanto, così come abbiamo fatto nei giorni scorsi, diamo voce sulle nostre pagine prestando ascolto senza censure verso chi i mass-media del pensiero unico continuano a negare affidandosi esclusivamente alle veline delle autorità pubbliche
Nessuna magra consolazione di fronte ad una prova così straziantemente tangibile del fatto che si aveva ragione, e anzi solo rabbia scorre nelle vene di chi è sceso in piazza per gridare, per scontrarsi, per dar battaglia su quella che non è mai stata una banale discussione rispetto ai piani di studio tra superiori e università, ma che in maniera innegabile si configura come una guerra per la vita.
La morte di Lorenzo durante – quello che pubblicamente si è tenuto tanto a specificare, ovvero non le ore di alternanza scuola-lavoro ma – un tirocinio di un istituto professionale in fabbrica (ovvero l’alternanza ante litteram, checché se ne abbia la faccia tosta di disquisirne) ha determinato il ritorno della normalità tossica all’interno della tossicità d’eccezione pandemica. Mesi, anni, in cui il dibattito pubblico era stato polarizzato dalla pretesa incondizionata della presenza alla difesa a spada tratta dell’online, rimanendo a discutere della superficie mentre la macchina formativa continuava incessantemente a girare e ad aggiornarsi. Il beffardo presente di cui facciamo parte rappresenta una tacita e radicale riforma del tutto, in cui le direzioni del sistema di ieri non sono svanite ma si ritrovano così aggiornate da essere quasi irriconoscibili.
Ma andiamo con ordine. Se ci si prova solo un istante ancora risuonano stridulamente per le cavità più remote delle nostre orecchie, le trombe boriose che durante il 2014/2015 del Governo Renzi bofonchiavano: “Il futuro è flessibile”. E forse che c’era un fondo di verità, la più limpida, nel dire che il domani non sarebbe stato alla portata di chiunque, ma che anzi ci sarebbe stato letteralmente bisogno di flettersi pronamente per entrare a far parte della lunga catena schiavile chiamata società.
Quante sudice parole quel Partito Democratico, da buon e fresco dandy di Corso Como, aveva speso per denigrare la massa di giovani sporchi e fannulloni, che doveva essere svezzata dalla pigrizia e iniziare a sporcarsi le mani nel mondo vero, nel mondo in cui devi (tu, poveraccio senza dote, mica l’upper class) faticare per vivere. Indimenticabile quindi il ddl in cui tanta violenza venne messa nero su bianco, con una scelta stilistica di dubbio gusto che ancora oggi ci porta a chiedere se fosse stata dettata da una sorta di sotterranea ironia o da chissà che tronfia presa di posizione, ma in qualsiasi caso stiamo parlando della “Buona Scuola”. Una riforma in piena consecutio politica rispetto a quelle che l’avevano preceduta durante governi differenti, e anche l’ultima ad oggi approvata. Insomma un ulteriore e sostanziale tassello nel percorso di aziendalizzazione del sistema formativo, di cui il fiore all’occhiello fu, per l’appunto, la famigerata alternanza scuola-lavoro: una vera e propria legittimazione dell’ingresso massiccio di privati e aziende all’interno delle aule, realizzata imponendo una prestazione di lavoro distribuita tra le 200 ore per i licei e le 400 per gli istituti tecnici, requisito obbligatorio per il conseguimento di qualsiasi tipo di diploma, ma soprattutto gratis. Non retribuito. Spudoratamente sfruttamento.
Sia chiaro, con questo testo si è molto distanti dal rimpianto della “cara vecchia scuola novecentesca” – che chissà nella pratica cosa voglia significare anche solo rispetto a delle coordinate storiche precise – e anzi, fuori da qualsiasi retromania rispetto all’età dell’oro dell’umanismo didattico, diciamo che per noi scuola e università hanno sempre rappresentato sedi dello sfruttamento. Il mito della contemplazione del sapere non solo non è attuabile oggi, ma non è neanche auspicabile dato che fa riferimento a un modello (quello che dai meandri dell’Ottocento arriva a toccare il Secolo Breve) in cui essenzialmente la formazione, e di conseguenza il sapere, era una possibilità esclusiva di chi per diritto di nascita non si sarebbe mai dovuto preoccupare della propria sussistenza.
Ma torniamo a noi, non serve tirare in ballo Foucault per analizzare quanto il sistema formativo tutto costituisca una perfetta macchina del disciplinamento e della normazione, in cui per l’appunto vieni “formato”, modellato secondo un archetipo di cittadino che abbia intrinsecamente assorbito determinati paradigmi sociali che si ramifichino sulle diagonali di genere, razza e classe: spartizione dicotomica del mondo tra maschio e femmina, diritti e doveri, tempo libero e tempo lavorativo. A tutti gli effetti ci si ritrova all’interno di una gigantesca catena di montaggio della riproduzione sociale, in cui prendere servizio cinque giorni su sette con un monte ore settimanale fisso, senza alcuna forma di retribuzione. In questo caso, esempio lampante è il ritmo taylorista della produzione di esami in Università, della sensazione sconfortante di essere a tutti gli effetti uno degli innumerevoli dipendenti della uni-azienda che più si preferisce, anzi che ha accettato l’assunzione stipulando un contratto con durata determinata.
Ci si chiederà allora, alla luce di tali posizioni, cosa nel 2015 avesse di così sostanziale la riforma presa in questione. Con la Buona Scuola l’upgrade dello sfruttamento non è avvenuto tanto all’interno degli istituti ma fuori, nelle fabbriche e nei posti di lavoro in cui dall’oggi al domani è piovuto un prodigioso temporale di manodopera gratuita. Con l’alibi raccapricciante dell’esperienza – questa entità astratta che, come un indovinello della sfinge contemporanea, per acquisirla la devi già avere acquisita – si è buttata in pasto alla miseria una generazione alla volta, anno dopo anno, fornendo grandi assunti tra i quindicenni e le quindicenni succubi di questo delirio: abituatevi alla miseria, al lavoro gratis, a nessuna garanzia, ai soprusi dei padroni.
Non stupiscono quindi alcune delle ultime dichiarazioni di Renzi in merito alla sua ostinata lotta per l’abolizione di quel piccolo paracadute sociale, scrauso e bucato, che è il reddito di cittadinanza: «no ai sussidi, bisogna sudare» e ancora «io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza per riaffermare l’idea che la gente deve soffrire».
Questo è il presente che viviamo oggi, in cui la sofferenza è eretta a valore da cercare, da desiderare, da apprezzare. Non più la favola, la caramella avvelenata della bellezza della fatica lavorativa, ma fuori dai denti l’invito alla miseria con una responsabilizzazione individuale per l’uscita da essa. Eccolo il merito, il kraken che ci inghiotte ogni giorno con i suoi viscidi tentacoli di sfruttamento e le sue fauci affilate del fallimento personale, dal senso di inadeguatezza, dalle mirabolanti aspettative di un futuro troppo caro per potercelo permettere.
La miseria produce morte in maniera trasversale: tanto in balia dell’alternanza scuola-lavoro, quanto per la frustrazione dopo la bocciatura ad un esame, o barcamenandosi tra lavori sottopagati per poter pagare le tasse, o alienandosi dalla propria esistenza pur di attenersi ai ritmi di produzione – come abbiamo visto, in senso ampio – pur di rispettare gli standard di sfruttamento che ci sono imposti.
Vogliamo vivere. Vogliamo una vita bella. Vogliamo tutto.