Avevo sentito parlare di Alessandra Ballerini da alcune amiche genovesi quando organizzammo lo sbarco della nave dei diritti nel 2010. Qualche mese fa mi passano il suo contatto e mi invitano ad intervistarla: “E’ proprio brava, è sul pezzo!”
La contatto, lei è gentilissima, ma a dir poco strapresa, rimanda, io non demordo e finalmente ce la facciamo, anche se fino all’ultimo l’intervista era in forse… Durante la telefonata si scusa, dobbiamo interrompere un momento, ma la tranquillizzo, è più che giustificata.
Da dove viene questa tua disposizione ad aiutare gli altri?
Sono imbarazzata a parlare di me, sono tantissimi anni che io “sono le vite degli altri”. Non c’è niente di importante in me, se non affiancare delle persone. Sono nata e cresciuta a Genova, ho un legame profondo con questa città che è sofferente, ma a modo suo generosa. La mia famiglia viene da spostamenti e anch’io sento legami con molte altre parti del mondo. Ho studiato giurisprudenza, un po’ per caso. Una cosa so: mi piacciono le parole. Ho ereditato un profondo senso di giustizia, in particolare da mia madre. Ricordo i suoi gesti, più che le sue parole. Le fortune, ma ora io dico “i diritti”, andavano condivisi. Mia madre lo faceva spontaneamente. Solo ora mi rendo conto quanto fossero straordinari quei gesti. Allora erano normali.
Quando ho studiato legge alla fine degli anni Ottanta non mi ricordo grandi attività politiche dentro le aule universitarie. La facoltà di giurisprudenza, intuivo, poteva essere comunque un ottimo strumento di conoscenza per provare a esercitare la giustizia. Così come divenne presto prezioso il mio tesserino di avvocato, che mi permette di entrare, oltre che nelle aule di giustizia, in molti luoghi (carceri, hotspot, centri di detenzione per immigrati) altrimenti inaccessibili. Ho lottato e lotto nelle aule di giustizia, anche se ogni tanto la toga “mi va stretta” e sento che la giustizia, soprattutto per alcuni tipi di torti, è monca.
Penso soprattutto ai rifugiati che hanno subito così tanto male (prima nel viaggio – Libia, rotta balcanica, ma non solo), hanno vissuto sulla loro pelle un tale accumulo di violazioni dei diritti fondamentali e di violenza, hanno assistito impotenti all’orrore che l’uomo può infliggere a un altro uomo, che non può esistere nessuna piena riparazione in un tribunale. Siamo al di là della riparazione. La tortura ti spezza… Bisognerebbe poter evitare a monte quel dolore, istituendo il rilascio di visti per motivi umanitari o per richiesta asilo e consentendo via legali di ingresso a chi scappa da violazioni dei diritti umani.
Alessandra Ballerini continua a parlare. Non c’è bisogno che le chieda nulla, le sue parole scorrono.
Quando un profugo chiede protezione internazionale, chiede il riconoscimento del suo status, cioè quello che è: un essere umano che esercita il sacrosanto diritto di fuggire dal proprio paese e chiedere asilo in un altro paese. E tu (magistrato, commissione…) non mi stai concedendo niente, stai solo riconoscendo quello che io sono già. Sei il mio “specchio” che riconosce quello che io sono, tu me lo scrivi solo su un pezzo di carta. Quel pezzo di carta sarà importante, certo, ma non può togliere tutto il dolore subito per esercitare un diritto che già avevo. Quel diritto inizia appena scappato di casa, dal Paese di origine, e invece per vederlo sancito i rifugiati devono attraversare i deserti, subire torture nelle carceri libiche, farsi bastonare sotto la pianta dei piedi, subire ustioni da plastica sciolta sulla schiena e amputazioni delle dita, vedere i propri cari morire in mare, venire rinchiusi in un hotspot, fare la fila in questura, aspettare mesi o anni, farsi interrogare in commissione, farsi dire di no, andare da un giudice… Quando alla fine magari quel giudice dice: “Ebbene sì, avevi ragione tu, hai diritto alla protezione internazionale.” Bene, io non sento la vittoria, non dico: “Tutto a posto”. Non ci riesco. Alcuni di loro fanno balletti di gioia, ma altri… non sentono più niente, li hanno “spezzati” così tanto, che non c’è consolazione, non c’è riparazione piena. Bisogna avviare mille altri percorsi, di tanti tipi diversi, per tentare una riparazione.
Per le questioni di cui mi occupo, le violazioni di diritti inviolabili, sento quindi che la giustizia è incompleta, o quanto meno tardiva. La cicatrice della violazione subita è destinata dolorosamente a restare. Se poi non viene neppure ottenuta “verità e giustizia”, allora la ferita incancrenisce.
Con Alessandra Ballerini apriamo la parentesi G8 di Genova. Lei ha fatto parte del Genoa Legal Forum fin da quelle giornate, si è trovata in mezzo agli scontri e alla repressione della polizia, era fuori della Diaz quella notte. Nomina la vergogna di quello che è accaduto in uno Stato che si presumeva democratico: torture, l’uccisione di Carlo e l’impunità per chi la commise, il medico che torturava a Bolzaneto e che rimase al suo posto. Racconta come quei giorni segnarono lei e altre migliaia di persone. Accompagnò le vicende giudiziarie che seguirono. Giorni, mesi, anni duri.
Sei entrata nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), ne hai scritto. Cosa provi a risentire parlare ora di CPR?
È una tremenda vergogna. La tristezza è che se 15-20 anni fa c’erano un po’ di parlamentari disposti a entrare, ora sono pochissimi. Il senatore De Falco, Luca Pastorino e pochi altri, troppo pochi.
Qualsiasi immigrato rischia di finire in uno di questi centri, perché basta poco per perdere i documenti e diventare, loro malgrado, irregolari. Ci sono sacche di clandestinità create ad arte dalla nostra normativa che ingabbiano fisicamente le persone. Gli esempi sono molteplici. Te ne faccio uno: un albanese può venire in Italia per turismo fino a 90 giorni, ma se in quei giorni trova un lavoro e vuole fermarsi non può trasformare quell’autorizzazione in un permesso di soggiorno: dal 91° giorno lui è irregolare e, come tutti gli irregolari, può essere rinchiuso in una gabbia. Le persone vengono recluse nei CPR per quello che sono, stranieri momentaneamente privi di permesso di soggiorno, e non per quello che hanno fatto: questa è una ferita nel nostro sistema normativo.
Si deve tornare a parlare di questi centri, ma la sensazione è che l’asticella si sia abbassata. Il livello di “tolleranza” di questi luoghi è cresciuto, siamo rimasti in pochi a chiederne la chiusura senza se e senza ma. Quindi, sì, è mostruoso che non sia cambiato niente, anzi possiamo dire che qualcosa sia peggiorato: prima non c’erano gli hotspot e le navi quarantena.
Hai anche tu l’impressione che in questi anni, soprattutto sul tema immigrazione e diritti, il margine di differenza tra governi di “centro-destra” e “centro-sinistra” sia davvero lieve?
È complicatissimo; c’è da dire che quando governava il centro-destra, alcuni parlamentari dell’opposizione davano il meglio di sé. Tutto poi è peggiorato negli ultimi anni, ora poi che sembra che tutti governino insieme…. Io comunque sono sempre abituata a guardare le persone, più che la tessera che hanno in tasca. Ricordo delle visite eccezionali fatte con Tana De Zulueta, con Chiara Acciarini, con Francesco Martone.
Dai tuoi racconti precedenti sembri davvero una persona che è “discesa agli Inferi”. Senti l’urgenza di far sapere quello che hai visto?
Sotto molti punti di vista ritengo una fortuna l’aver visto, ma ultimamente mi sembra di aver “accumulato” troppo dolore e questo non va bene, è come mi fossi “intossicata”. Le persone che vengono da me sono profondamente violate. Anni fa gli approdi a Lampedusa erano differenti: c’era una qualche gioia in chi arrivava, mentre ora sono completamente prostrati.
Sono osservatrice per Antigone e mi sono fatta una promessa: se uscendo da una visita a un carcere non starò male, smetterò di entrarvi. Io “devo” stare male tutte le volte. Se mi abituo a quell’odore, a quei rumori di cancelli e chiavi, a quegli sguardi… non ha più senso che io vada ad osservare questi posti.
Certo, è faticoso. L’esigenza di raccontare c’è ed è anche egoistica, serve per sfogarsi e per vincere la solitudine.
Serve condividere con altre persone che hanno visto con te le stesse cose; questa condivisione crea legami fortissimi, indissolubili. Ricordo un amico carissimo con il quale entrammo in un carcere in Mozambico e in un enorme campo Rom a Lubiana. Quando vedi queste situazioni e poi guardi chi è con te ad assistere, lo scambio di sguardi, sentimenti, empatia, indignazione è formidabile, come se ti legasse per sempre.
Comunque si, c’è il bisogno e anche il dovere di raccontare la fortuna di visitare questi luoghi da osservatori e non da vittime. L’ignoranza è profonda e anche il linguaggio su questi temi è malato: c’è chi parla di “pacchia”, di “taxi del mare”, di “clandestini”, di “migranti economici”. Anche il termine “sbarchi”, mi hanno spiegato a Lampedusa, è scorretto! Gli sbarchi li fanno gli eserciti, le persone approdano.
Dobbiamo usare il linguaggio giusto e spiegare a tutti chi sono queste persone che arrivano e che magari rinchiudiamo. Ma anche ciò che avviene nelle carceri è troppo poco noto: chi popola le prigioni? Come si vive in prigione? Va detto, la gente non lo sa. Tutto questo ci riguarda. Le violazioni dei diritti umani riguardano tutti, nessuno è al sicuro.
Qualcuno ti ha mai detto che sei “poco professionale”?
(ride) Si, continuamente. Ho scoperto che a volte in tribunale mi chiamavano “la negra bianca”, o “l’avvocato dei negri”. Spesso questa mia passione, ma anche il mio anticonformismo nel vestire o pettinarmi, non aiuta l’idea di “essere professionale”. Prima del Covid tendevo ad abbracciare molti miei clienti, o ad appoggiare la mia mano sulla loro, magari mentre mi raccontavano quello che avevano subito. Non riesco ad avere “distacco”.
Mi sbaglio, o fatichi a dire di “no”?
A volte lo dico. Il rapporto tra avvocato e cliente deve essere di fiducia: è raro, ma se una persona “non mi piace”, o c’è diffidenza, dico di no e di solito è reciproco.
Lavori troppo…
Si, decisamente, anche perché tutto ruota intorno a quello che fai: le letture, i viaggi, i film che vedi, le persone con cui parli. Ma in fondo mi piace, mi appassiona.
Hai una vita privata?
(Sorride) No, in effetti no. Non ce l’ho più, anzi non ricordo se l’ho mai avuta veramente…
Come sei diventata l’avvocata della famiglia Regeni?
Una mia carissima amica era amica di Giulio, fin da quando è successo tutto mi ha messo in contatto con loro e non ci siamo più separati. Non parlo senza la loro autorizzazione; posso solo dirti che questo incontro con loro, questi sei anni insieme, hanno ulteriormente cambiato la mia vita. Questo percorso di verità e giustizia, come gli altri che seguo per Mario Paciolla, trovato impiccato in Colombia mentre era in missione per l’Onu, per il fotoreporter Andy Rocchelli, ucciso dalla guardia nazionale ucraina, per Michele Colosio ucciso in Messico e per Nadia De Munari uccisa in Perù… Tutte queste battaglie riguardano tutti noi.
Il male del mondo non può restare impunito e in questo mondo, dove ci si sposta sempre più spesso, non è tollerabile che chi parte non possa tornare vivo a casa.
Hai mai pensato di fare politica?
Forse mi piacerebbe provare a cambiare le cose “da dentro”, ma confesso di avere il terrore del potere. Un po’ di anni fa sono stata candidata al Consiglio Regionale ligure. Questa cosa non la sa quasi nessuno: c’è stato un momento durante lo spoglio in cui sembrava che entrassi, poi invece non passai. Ma in quel momento mi prese il panico che quell’incarico, quel potere, mi potessero cambiare. Avevo quindi firmato delle “dimissioni in bianco” e avevo nominato “probiviri” mia mamma, don Gallo e altri amici che dovevano vigilare sulla mia integrità. Se mi avessero vista cambiare, avrebbero potuto depositare quelle dimissioni.
Qualsiasi altra attività dovrebbe essere comunque compatibile con la difesa della famiglia Regeni, di Paciolla, di Rocchelli, o di tutti i miei profughi. Sono troppo affezionata a loro.
Come vivi l’accostamento linguistico che ogni tanto si fa avvicinando la tragedia dell’Olocausto a quella più recente dei migranti?
Non ho delle verità assolute, ma istintivamente non mi piacciono gli accostamenti. Ogni tragedia ha una sua unicità e assimilarne due rischia di far perdere specificità all’una e all’altra. Certo, anch’io alla fine uso il termine “lager libico” perché è l’idea che meglio rende e comunica velocemente, ma poi va spiegato, va raccontato cosa avviene in questi luoghi. Quello che avviene nei lager libici è dovuto a un miscuglio di malvagità, disumanità, razzismo, opportunismo, ma ci sono dei gesti di spregio terribili. Mi hanno raccontato di un ragazzino che aveva detto che gli piaceva giocare a pallone e allora proprio per questo gli avevano spezzato una gamba. A volte prima di liberarli, come ultimo gesto di odio uomini e donne vengono abusati sessualmente. Non so che nome dare a tutto questo, ma so che va spiegato e bene.
Conosci bene Lampedusa?
Sì, è “la mia isola” da tantissimi anni. C’è molto di quello che amo: fino a qualche mese fa c’era un parroco straordinario, don Carmelo, c’è Paola, una mia carissima amica. Lampedusa è casa, accoglienza, i salvataggi, le persone che distribuiscono il tè sul molo. Ma poi ci sono anche il cimitero, i respingimenti, le mancanze della fortezza Europa, le gabbie. Quello che combatto a fianco di quello che amo.
E Ventimiglia?
Ci sono stata diverse volte, ma ora è parecchio che non ci vado. Resiste sempre un nocciolo duro di solidali italo-francesi. I respingimenti avvengono di continuo e alla frontiera ci sono sempre i pedofili (italiani o francesi) che si scelgono i ragazzini quando arrivano coi treni e i trafficanti di esseri umani. Voglio tornarci, ma voglio farlo magari con qualche parlamentare, con qualcuno che possa agire oltre che vedere.