Il disegno di legge sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne riconosce il diritto a un “reddito di libertà” (400 euro per 12 mesi) alle donne vittime di violenza. Una misura utile, se accompagnata da altri provvedimenti, a favorire l’autonomia delle donne, soprattutto nelle regioni del Sud, e a scardinare quelle zone grigie che legano violenza, vita di ogni giorno e affetti.
Il 3 dicembre 2021 il consiglio dei ministri ha dato via libera a un disegno di legge che contiene una serie di misure per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica. In Italia, dall’inizio dell’anno, sono state ammazzate 109 donne per mano di uomini, compagni, padri, mariti, parenti violenti. Una dramma sociale che cresce e che, come noto, nei due anni di pandemia si è ulteriormente aggravato.
Fra le novità più importanti del pacchetto varato dal consiglio dei ministri ci sono: l’arresto non più solo in flagranza di reato; la procedibilità d’ufficio per i reati di violenza in ambito familiare; il braccialetto elettronico per l’aggressore e il “reddito di libertà” a sostegno delle donne che spesso non riescono a denunciare proprio perché dipendenti economicamente dal soggetto violento. Le donne vittime di violenza hanno diritto a un “reddito di libertà” di 400 euro per dodici mesi; una misura triennale per la quale il governo ha previsto uno stanziamento di 30 milioni di euro.
È un disegno di legge che sembrerebbe iniziare ad andare nella direzione giusta, due motivi: non limita la libertà delle vittime ma quella degli uomini violenti attraverso il rafforzamento delle misure cautelari e degli strumenti di controllo (come ha fatto notare la Presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio Valeria Valente) e intercetta la questione sommersa ma estremamente strutturale e importante del fenomeno legata alla frequente dipendenza economica delle donne dai propri aggressori.
Spesso tale dipendenza nasce e si alimenta all’interno di sistemi socio-culturali ed economici nei quali alla donna è riservato come “obbligo naturale” quello di occuparsi dei propri mariti, compagni, figli, padri, fratelli. Le donne che provano a uscire fuori da questa rigida maglia, soprattutto in contesti scarsi di opportunità di lavoro e servizi di conciliazione, non hanno certamente vita facile. Quella che dovrebbe essere una nobile scelta d’amore e di cura, auspicabilmente condivisa con il proprio partner, diviene un destino inevitabile.
Non aiuta sapere che questo riguarda anche molte giovani donne, soprattutto al Sud: nonostante un percorso di studio e formazione solido e a volte brillante tante non riescono a esprimere le proprie potenzialità e a costruire percorsi di autonomia proprio perché la ristrettezza di opportunità professionali ed economiche si mescola con una cultura “dell’accudimento” ormai non più rappresentativa di un modello economico e sociale che tende a puntare su saperi, competenza e promozione delle libertà individuale. Di certo questo mismatch tra offerta e domanda di futuro – sia sul fronte occupazionale che su quello socio-culturale – non fa che peggiorare la questione.
L’antropologa Amalia Signorelli, tra le tante, aveva molto a cuore il tema delle donne e soprattutto della promozione della loro presenza nei diversi ambiti della vita economica e sociale di un paese. Durante le sue lezione universitarie alla Facoltà di Sociologia di Napoli Federico II, sino alla fine dei suoi giorni, non ha smesso di ripetere alle sue allieve (tra le quali mi pregio di esserci stata, malgrado le durezze di un carattere a volte ruvido e molto spigoloso) che la vera libertà delle donne passa in primo luogo dalla loro emancipazione economica. È tale autonomia che riequilibra i rapporti di genere nelle famiglie e nella società ed è lo strumento primario attraverso cui le donne possono esercitare il loro diritto di scelta.
È evidente che in un periodo di scarse opportunità per tutti, il governo e le politiche pubbliche abbiano il dovere e il compito di affrontare la questione su piani diversi e diversificati, aumentare dunque la protezione su tutti i livelli. Ma è necessario cercare di non perdere di vista l’insegnamento di Amalia Signorelli. Senza cadere in facili entusiasmi saremmo tentate e tentati a pensare che la misura di sostegno prevista nel pacchetto “antiviolenza” intercetta la piega delicata e spesso invisibile della “dipendenza economica” delle donne vittime di violenza dai propri aguzzini, che spesso le costringe a non denunciare e nemmeno a trovare le parole per dire a se stesse – e dunque agli altri – di essere vittime di vessazioni e violenze varia natura, fisica, psicologica, morale, sociale. Violenze, vita di ogni giorno, affetti si mischiano, i contorni si sfumano tanto da non capire e percepire più quanto iniziano e finiscono. È così che la violenza entra a far parte delle nostre vite e delle nostre tavole. Per questo è in queste zone grigie della cosiddetta “normalità” che bisogna cercare di entrare per provare, con tutte le forze e gli strumenti democratici che si hanno a disposizione, a scardinare e contrastare un fenomeno che ha radici solide e profonde nel tessuto economico e sociale. Il “reddito di libertà” potrebbe far ben sperare, ma va associato a un programma di politiche attive atto ad accompagnare le donne verso percorsi di autonomizzazione completi, non solo dal punto di vista psicologico – che poi questo riguarda anche gli uomini – ma anche sociale.
Insomma, la violenza sulle donne è una questione pubblica ed è soprattutto un prodotto sociale, come tale andrebbe trattato. Esso interroga la politica in primo luogo, le istituzioni culturali e normative, la società civile, e naturalmente le scelte che tutte e tutti mettiamo in atto ogni giorno.