l’articolo è il prodotto di una discussione tra la nostra redattrice e Ousman Drammeh, giovane meditatore culturale –
Quando Hannah Arendt denunciava la banalità del male che si genera in assenza di pensiero, indicava più che il rischio la inevitabilità di commettere ingiustizia o comunque di ferire parlando e agendo senza riflessione. Ousman Drammeh è un giovane gambiano, mediatore culturale a Palermo già da quattro anni, e troppe volte si è imbattuto in ostacoli culturali legati alla superficialità e alla mancanza di attenzione, che danno luogo a equivoci e falsano la comunicazione, anche tra persone “di buona volontà”.
Cominciamo dai gesti, ci avverte: ci sono alcuni gesti che precludono la comprensione. Ad esempio, abbassare lo sguardo di fronte a un adulto o a una persona autorevole, specialmente se ci sta rimproverando, è un atto di rispetto dovuto in Africa, soprattutto se il rimproverato è un giovane. Ma in Italia vale la regola opposta: un professore sgrida l’alunno: “Guardami negli occhi, quando ti parlo”, se questi distoglie lo sguardo. La compunzione viene interpretata come strafottenza: “Stai guardando da un’altra parte perché non t’importa niente di quello che sto dicendo…”
Inoltre, certe norme di buona educazione che l’Occidente sta dimenticando – non interrompere chi parla; non accusare con violenza un adulto di menzogna di fronte ad altri, ma parlargli con garbo e spiegarsi senza rabbia quando si è soli; non voltare le spalle al genitore che ti sta dicendo cose sgradite né piantarlo in asso – in Africa sono ancora in uso e universalmente obbedite. Forse i giovani europei in questi casi dovrebbero seguire l’esempio dei ragazzi africani.
Continuiamo con le parole: la parola “nero”. Si dice “lavoro nero” e si intende lavoro irregolare, senza contratto, illegale e mal pagato. Ormai è un’espressione entrata nella lingua italiana ed è impossibile pretendere che non la si pronunci, ma fermiamoci almeno a riflettere: quando usiamo il termine “nero”, come lo usiamo e in quale contesto? Perché si dice proprio “lavorare in nero”, invece di utilizzare altre formule? Ci siamo mai fermati a chiedercelo? Non ci accorgiamo di ricorrere ad una immagine che rappresenta una discriminazione e può risultare offensiva. Può avere a che fare con la memoria storica dello schiavismo e dell’imperialismo coloniale, o forse con un passato ancora più recente che riaffiora inconsapevole (Faccetta nera…).
Il lavoro nero è allora quello dello “schiavo”, antico o moderno, invisibile, “non persona”, come lo hanno definito G. Orwell e A. Del Lago. E, di fatto, il colore “nero” da sempre nella cultura occidentale è stato associato al male e alla crudeltà: è il colore del lutto, della magia malefica, del terrore come genere cinematografico (il noir), del fascismo (le camicie nere). Nero equivale a sporco, anzi è peggio di sporco (una pubblicità degli anni Sessanta mostrava una linda olandesina, bianca splendente nella sua cuffietta inamidata, rivolgersi ad un pulcino sbadato, tutto inzaccherato, per consolarlo: “Tu non sei nero, sei solo sporco!”). E ugualmente l’espressione “ragazzo di colore” sembra innocua e innocente, vorrebbe essere un gentile eufemismo per non pronunciare la parola “nero” o peggio “negro”. Di colore, ma di che colore? Un europeo o un israelita sono di colore rosa, un nativo americano è rosso, un cinese giallo, un arabo beige? E perché è tanto di moda abbronzarsi per sembrare sani? Ci diciamo “bianchi”, ma d’estate vogliamo diventare “neri”… Sarebbe molto più giusto e corretto indicare la provenienza geografica, anziché riferirsi al colore della pelle… Dire, cioè, “un ragazzo gambiano o, in genere, africano” e non “un ragazzo di colore”.
Peggio accade quando la parola si trasforma in un fatto: guerra. Già gronda sangue e orrore dai libri di storia e dalle immagini in tv, ma altra cosa è attraversarla. Per un europeo molto anziano la parola guerra evoca il secondo conflitto mondiale, bombardamenti, campi di prigionia, resistenza; per un giovane solo il racconto dei nonni o dei bisnonni; per un coetaneo nato in Africa, invece, è spesso esperienza quotidiana e, se ha affrontato a piedi il viaggio dall’interno sino alle coste libiche, è il computo degli scheletri nel deserto del Mali e tanto altro che non riesce a raccontare.
Infine c’è la questione “lingue o dialetti”, che in qualche modo accomuna l’Italia, paese di recente unità e molteplici e ricchi idiomi, ai paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea, un’area tagliuzzata dalle conquiste coloniali, con i confini segnati a tavolino dai plenipotenziari di turno che separarono etnie e spartirono parlate, etnie e parlate che oggi questi confini – politici ma antropologicamente fittizi – travalicano. Almeno sei lingue transnazionali esistono nel golfo di Guinea, tra le quali Mandinka, Wolof, Fula, che si parlano in Senegal, Gambia, Guinea, Mali e in Costa d’Avorio.
Si tratta dunque di lingue e non dialetti, secondo la definizione corretta dei due termini, poiché ricoprono un’area molto vasta e, benché solo orali, sono diffuse tra più popoli. Ousman, come mediatore culturale, ha frequentemente tradotto le comunicazioni italiane per ragazzi del Senegal, del Gambia, della Guinea, servendosi sempre del Mandinka, che è appunto una lingua transnazionale; è un po’ come se un giovane palermitano e un milanese, incontrandosi all’estero, non potessero dialogare che in italiano, e non certo nel loro dialetto locale, per comprendersi. Nessuna di queste lingue, però, può essere adottata come lingua ufficiale di uno Stato, dato che in ogni Stato se ne parlano diverse. Ciascun abitante poi ne parla più d’una, almeno due, oltre alla lingua ufficiale dei colonizzatori, inglese francese spagnolo o portoghese, studiata a scuola.
Ecco, dunque, un altro aspetto, apparentemente non così discriminante, che però non può essere affrontato da una prospettiva europea. In Africa, e soprattutto nell’Africa centro-occidentale, una lingua non corrisponde ad uno Stato e chiamarla dialetto è sbagliato data la sua larga diffusione. Definire il Wolof o il Fula un dialetto, inoltre, suona come un insulto per chi lo parla e si sente sminuito al rango di un quasi analfabeta.
Ma allora perché si continua ad insistere nel dire “dialetti”? C’è, magari inconsapevolmente, una connotazione negativa in questa accezione? Sono disprezzati perché sono solo orali e non anche scritti? E perché gli europei colonizzatori non si sono mai presi la briga di imparare a parlarli? Li consideravano balbettii insulsi, come gli antichi Greci consideravano le lingue dei “Barbari”? Forse finalmente oggi, nella prospettiva di costruire una società davvero interculturale, si può porre rimedio a questo: aprirsi all’ascolto e all’apprendimento delle lingue africane, apprezzandone la dignità e la bellezza.
In conclusione, occorrono attenzione ed empatia per capire che non un Uomo, ma gli Uomini e le donne, aggiungiamo noi, abitano la terra e che l’umanità può essere una meravigliosa pluralità di esseri unici (Arendt).