Parliamo con Cristina Simonelli, teologa ecofemminista, docente di teologia patristica a Verona (San Zeno, San Bernardino, San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano). Dal 1976 al 2012 ha vissuto in un campo Rom, prima in Toscana, poi a Verona.
Figura di spicco del mondo femminile ecclesiale italiano e internazionale, è stata dal 2013 al 2021 la Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane, associazione ecumenica di teologhe che promuove gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico, in prospettiva ecumenica e favorisce la visibilità delle teologhe nel panorama ecclesiale e culturale italiano.
Ha commentato per Piemme l’Enciclica di Papa Francesco Laudato Sì: Sulla cura della casa comune (2015).
Nel 2018 ha scritto Manuale di Storia della Chiesa. L’età antica (con G. Laiti, Morcelliana, 2018), nel 2019 ha scritto Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista insieme alla teologa Elizabeth E. Green e nel 2021 ha scritto Eva, la prima donna, edito da Il Mulino.
Ognuno di noi è nato con l’immagine di Dio come Uomo, anziano, barbuto e saggio. Un’immagine stereotipata che ha creato inevitabilmente una gerarchia. Quale è il genere di Dio ? Si può parlare di asessualità di Dio?
“Sicuramente è un’immagine stereotipata, che viene da lontano e che il linguaggio, anche biblico, e le rappresentazioni artistiche hanno contribuito a fissare e sacralizzare, anche se non l’hanno creato dal nulla: si può mostrare come il creatore barbuto sia anche la ripresa del Prometeo classico che forgia l’essere umano, ad esempio. Trovare le parole non è semplice e in questa mia affermazione, al limite del banale, c’è già un suggerimento, quello cioè di non cercare una formula magica. Certamente l’immaginario di un divino maschile va decostruito, ma secondo me non sarebbe sufficiente passare a un immaginario femminile, ma ancora meno parlerei di “asessualità”. Si può tendere verso una visione che assume le differenze, le benedice, le accoglie, senza appropriarsene in maniera rigida e binaria, ma anche senza eliminarle? Forse una delle modalità con cui oggi si usa queer si presterebbe meglio a dire questo. Certamente però una parola sola non basta e serve lo spazio, pratico, simbolico e dialogico, per provare a balbettarlo.”
La preghiera del “Padre Nostro”, nella nominazione del Padre, è stata usata nei secoli per giustificare il potere e il patriarcato. Può darsi che vi sia stato un inquinamento delle parole?
“Anche questa domanda è difficile. La preghiera del Padre Nostro è stata anche invocazione trepida, ha portato con sé parole di Vangelo, esigenze di pane e di perdono, di affidamento. Ovviamente in una maniera mescolata, mai solo positiva, ma, ecco quello che vorrei dire, neanche solo negativa. La scrittrice pakistana Tehmina Durrani in Blasfemy (1998, italiano: Empietà, Neri Pozza) si domanda e chiede in fondo a ogni religione “come abbia potuto Dio permettere che qualcuno si appropriasse del suo Nome?”. Questa appropriazione è stato altrettanto grave dell’immaginario maschile proiettato su Dio: il mettere il suo Nome nelle nostre imprese di guerra, di sopraffazione, di ingiusto ordine del mondo. Come anche interpretare la “sua volontà” non come un progetto benedicente e inclusivo (anche questo espresso “in gergo” con una terminologia da tradurre, quale quella di Regno di Dio) ma come un destino violento preconfezionato su ognuno/a di noi. Inquinamento di parole, ma soprattutto di concetti e di pratiche. Tuttavia con faglie, spazi, varchi: corre energia in quegli spazi e sono convinta che vi sia stato sempre, accanto all’inquinamento, lo scorrere di un rivolo buono”.
Durante la Sessione Ecumenica di Camaldoli lei ha definito il contributo delle teologie delle donne alla ricerca di Dio con tre elementi descritti da lei nel libro scritto insieme a Elisabeth Green: manomissione, profondità, rispetto. Cosa intendeva in quelle pagine?
“In quel capitolo del nostro libro intendevo dire quanto sto provando a esprimere anche qui: ogni semplificazione, anche nel bene, è poco utile. Manomissione – termine latino che indica la liberazione degli schiavi, rinverdito dalla riflessione di Carofiglio – vuol dire non lasciare mai ferme le parole, neanche le migliori, per aprirle, per lavorarle, per vedere dove si possono incagliare, tutte. Per profondità intendo non stare alla superficie delle cose, delle relazioni, della preghiera: solo tra spirituali, in senso forte, è possibile il dialogo. Per rispetto, oltre ovviamente a quello fra persone, intendo anche la sana, doverosa consapevolezza del limite del discorso teologico, che ha rispetto del suo oggetto proprio mentre lo smonta e lo rimonta, pensandosi sempre per strada, non comodamente sedute/i alla meta raggiunta”.
Perché è importante depatriarcalizzare il messaggio evangelico?
“Proprio per tutti questi motivi, è importante manomettere, nel senso che cercavo di dire, anche il linguaggio evangelico, che non piove dal cielo, ma ha un tempo, un contesto, un “verso”, anche di genere. Per attraversarlo continuamente, come spero di aver detto sopra.”
“Fratelli Tutti” è l’ultima enciclica di Papa Francesco, rivolta “a tutti i fratelli e le sorelle”. Ancora una volta il “neutro maschile” pretende di andare “al di là delle barriere della geografia e dello spazio”, ma non del genere?
“C’è stato sconcerto e anche un grande dibattito attorno a questa questione, ancora una volta non scontata, perché l’impianto generale dell’enciclica, in diretta connessione con Laudato Sì, è decisamente impegnativo e anche utile. Voglio dire, se si fosse trattato di un brutto documento, o di un testo molto fragile quale è il quarto capitolo di Querida Amazonia, sarebbe stato più semplice anche contestare questa cosa, ossia l’assenza di una attenzione al linguaggio, che diventa anche un deficit di sostanza. Molte colleghe si sono espresse molto utilmente sul tema e non posso che rimandare a loro: ad alcuni interventi di Lucia Vantini e Rita Torti; e alla pubblicazione dal titolo eloquente “Sorelle tutte” di Green, Segoloni, Zorzi (Meridiana 2021). Simona Segoloni, fra le altre, suggerisce un esercizio semplice ed efficace: provare ad applicare ai rapporti interni alla comunità ecclesiale l’esigenza di giustizia e di inclusione che viene richiesta per il “mondo”. Sembra in effetti una sorta di patologia della vista, nella quale oggetti vicini risultano oscurati alla stessa percezione.”
A settembre 2021 si è tenuto il XXVII Congresso dell’Associazione Teologica Italiana. Quale spazio ha occupato il tema della riflessione teologica delle donne?
“Effettivamente ha occupato un grande spazio: in primo luogo per la cura- per niente scontata né secondaria – di avere interventi sia di uomini che di donne. Gli organizzatori rivendicano la loro scelta come realizzata al di fuori dell’orizzonte delle “quote”. Anche questa è una cosa interessante, perché un Congresso è anche lo specchio della situazione di fatto della ricerca: dicono di avere cercato persone competenti e il quadro è risultato così.
Non si è trattato però solo di questo: dal punto di vista metodologico, Stella Morra ha segnalato l’esigenza di rendere pienamente efficace un principio di differenza, non in “uscita”, a vedere se ci possa essere una applicazione virtuosa, ma lungo tutto il percorso di riflessione.
Inoltre – e questa ultima cosa chiede a mio avviso di essere meglio pensata – il lavoro teologico del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI) è stato spesso nominato, interrogato (ad esempio nei gruppi di discussione), a tratti invocato. Qui c’è da scavare ancora e meglio: per noi teologhe, per non accontentarsi o bearsi dei risultati ottenuti, per migliorare gli approcci e le interazioni che attiviamo; per tutt*, per capire dove l’istanza ha la possibilità di diventare percorso comune e dove invece ha il senso della nostalgia o, peggio, dell’ultima spiaggia. Come spesso diciamo, inoltre, non vogliamo fare noi “il lavoro degli uomini”, ma certamente è il momento che i colleghi ragionino di più su loro stessi, sulla loro propria parzialità. È passato del tutto il tempo in cui potevano invece parlare di noi: non va bene, neanche se lo fanno con stima e quasi a “difesa”.
Restando in tema di cammini di depatriarcalizzazione, quanto è difficile oggi organizzare una pastorale Lgbtq in una parrocchia o in una diocesi?
“Riprendo dal tema precedente: non è facile per niente uscire dallo scontato, magari spolverato di zucchero, di bontà. Così è raro (che vuol dire che in qualche luogo esiste) trovare in ambito ecclesiale percorsi di uomini che riflettono sulla propria maschilità. E certamente non è per niente facile non solo “organizzare” un gruppo ecclesiale LGBTQ; ma direi di più, nonostante tanta insistenza sulla libertà di espressione, anzi sul dovere di dire, in contesto di sinodo, tutto proprio tutto… l’esperienza dice che questo non è ancora a costo zero. E pazienza per chi si avventura sul tema per un senso di onestà e solidarietà: queste persone hanno già, per usare il linguaggio evangelico “la loro ricompensa”. La vera difficoltà è per le persone che si riconoscono nelle denominazioni LGBTQ su cui la pressione è ancora fortissima, dal dileggio al sospetto fino al disprezzo. E questa è una grande violenza, che si incide nella profondità delle persone, che è dolorosa e, inoltre, spinge tuttora qualcun* alla reticenza (e come pretendere il coming out, in questa situazione?) o a un certo punto a uscire con espressioni graffianti o mirabolanti e eccessive, tipo Drag, che finiscono per confermare il teorema negativo in ambito ecclesiale.”
(fine Parte I)