Ieri al Cecchi Point di Torino si è tenuto un convegno dal titolo “Mi sento antirazzista ma” dove i relatori sono stati coloro che vengono razzializzati
Sono intervenuti:
– Espérance Hakuzwimana: scrittrice
– Mohamed Ba: attore, musicista, educatore
– Suad Omar: attivista e attrice
– Lamin Sow: sindacalista CGIL Piemonte
– Tarditi Cinesina: insegnante e attivista
E’ stato organizzato da InMenteItaca, Rete 21 Marzo – Mano nella Mano contro il razzismo, Associazione Panafricando e Associazione Orizzonti in Libertà, con il contributo della Città di Torino e il patrocinio della 7° Circoscrizione. Nasce dalle riflessioni e discussioni che si sono svolte nei mesi scorsi all’interno del “Patto di Collaborazione per una Torino Antirazzista” promosso dal Comune di Torino che ha coinvolto più di 50 associazioni attive sul territorio nella lotta al razzismo e alle discriminazioni
Il convegno è stato introdotto da uno spettacolo teatrale: tre monologhi interpretati da Suad Omar, Hasti Naddafi, Luca Fancello, con la regia di Ayoub Moussaid.
E’ intervento l’Assessore alle politiche sociali del Comune di Torino Jacopo Rosatelli. In sala anche l’ex assessore Marco Giusta.
La prima considerazione da fare è che se le persone vittime di razzismo devono parlare dal loro punto di vista del grave problema, i convegni devono farseli, non viene dato loro spazio mediatico, se non per raccontare, brevemente, la loro “triste storia”.
O sono degli invasori pericolosi e delinquenti, o sono dei “poverini”.
Questa è una narrazione di cui sono responsabili la politica e l’informazione. Anche in questo caso una polarizzazione: da una parte una destra razzista e suprematista, dall’altra una parte di popolazione “di persone buone” concentrata su ciò che le politiche migratorie europee stanno causando, il caso recente più eclatante è la situazione polacca/bielorussa. Una narrazione mediatica polarizzata: quella “dei buoni” si ostina a mostrare i “poveri bambini” che soffrono ai confini. Da fotografo ricordo già negli anni ’80 le innumerevoli, francamente ignobili, foto di bambini africani con la faccia piena di mosche.
Non sono “poverini”: sono persone che stanno vivendo una “temporanea” condizione di estrema difficoltà che le nostre politiche oppressive stanno impedendo loro di cambiare. Politiche che in molti casi li stanno letteralmente uccidendo. Si sono spostati dal loro Paese d’origine proprio per altre questioni di difficoltà che con la partenza hanno deciso di cambiare. Poi, dopo “il game” della regolarizzazione, si trovano di fronte ad altre difficoltà: il razzismo, la discriminazione, forme di esclusione sociale.
Cosa intendiamo per “integrazione”? Sono pochi i moniti: per noi lo straniero “virtuoso” è quello che “ce l’ha fatta”, ovvero che ha “fatto i soldi”, una persona “mansueta”, che non si è mai ribellata alla discriminazioni, anche – e sono le più pesanti – istituzionali, che ha sempre accettato di “buon grado”. Uno zio Tom quindi, consapevole e “prono” ad una condizione di subalternità. Come reagiamo a chi, arrivato da lontano e dotato di una sana autostima, ci tratta alla pari? Come ci rapportiamo ad una persona che non è un “vuccumprà” ma un “vuppensà”?
Che cosa ci aspettiamo dalle persone nate in Paesi lontani, detentrici di culture altre? Che diventino come noi? E com’è possibile? La domanda più deflagrante posta ieri sera è: “Come ci rapportiamo all’alterità?”.
E poi: “Oh come sei bella!”, “Oh come parli bene l’italiano!”, quell’odiosa condiscendenza, prodotto dell’ipocrisia di chi comunque si sente superiore, ma “tanto buono neh”, talmente superiore da sfoggiare la propria bontà.
Il fatto di essere solidali, i “buoni”, di aver magari sposato una persona che arriva da lontano, ci dà legittimità per parlare di “loro” o addirittura per “loro”? Di considerarci degli “esperti” dell’argomento?
Difficile non associare il razzismo ad una forma deteriore di dismorfismo, le forme più evidenti di razzismo si manifestano nei confronti di coloro che hanno una fisionomia tale da essere identificati come “altri”, non avviene in modo così evidente e “automatico” nei confronti, ad esempio, dei polacchi o dei rumeni.
Questo dismorfismo è ancora più evidente nei confronti delle persone nate in Italia da genitori stranieri, sono a tutti gli effetti detentori della nostra cultura, usano i nostri gesti, parlano un italiano perfetto, addirittura con l’accento della città in cui vivono, ma sono razzializzati. Non si sentono appartenenti al Paese di origine dei propri genitori perché non l’hanno vissuto, sono nati qui. Non si sentono italiani perché noi non glielo permettiamo, sono comunque persone “altre”. Le leggi sono un percorso ad ostacoli per diventare italiano. E poi arriva la lettera: “Congratulazioni! Lei è diventata italiana”. Congratulazioni? Questa persona è nata in Italia, ha frequentato scuole italiane, è detentrice della nostra cultura: congratulazioni per cosa, esattamente? Per l’infinita pazienza?
E poi uno dei problemi di cui praticamente non si parla: i bambini adottati. Sono molti i casi di bambini figli di adozioni “problematiche”. Qualcuno potrebbe dire che è pieno di giovani conflittuali verso le proprie famiglie, ma in questo caso ci sono problemi ulteriori: il primo è quello dell’adozione in sé, il secondo è che sono persone “altre”. Sono molte le persone di origine straniera adottate che effettuano viaggi nei paesi di nascita alla ricerca delle proprie origini, della propria famiglia biologica, alla ricerca, sostanzialmente, di un’identità.
Mamma, papà, “io sono nera”, a tutti gli effetti un coming out, una presa di coscienza, culmine di un percorso spesso doloroso. Occorre chiedersi perché. Perché un figlio adottato senta il bisogno di dire “io sono nero”, ma la risposta non possiamo darla noi “bianchi”, perché siamo causa del problema.
Non possiamo pensare di rapportarci alle persone nate lontano, ai ragazzi di “seconda generazione”, pessima parola, senza ascoltare la loro voce.
Noi buoni, solidali, non possiamo lottare per loro, ma con loro.
Un bianco italiano da questi convegni non può che uscire con “una montagna” di domande, anzi perfino con il dubbio di aver capito bene, dubbio che è corretto esplicitare anche per il contenuto di questo articolo, scritto, appunto, da un bianco italiano.